Daniela Fuganti, La Stampa 27/12/2013, 27 dicembre 2013
CAMBOGIA, GLI DÈI TORNANO AD ANGKOR
Alle quattro del pomeriggio ad Angkor si va a vedere il tramonto al Pre Rup, il «tempio degli italiani». Le torri dell’elegante santuario del X secolo, consolidate da una squadra guidata da Walter Maria Santoro, specialista di ingegneria geotecnica e strutturale, sono un esempio della magnifica avventura che accomuna da vent’anni i quattro continenti accorsi al capezzale di questo sito universale quando, dopo la tragedia dei khmer rossi, il territorio era infestato da mine, le foresta in pericolo, i templi in abbandono.
Ventitré paesi da allora fanno a gara nell’intervenire sul restauro dei favolosi santuari che, fino all’inizio del XX secolo, i cambogiani pensavano essere stati edificati per gli dèi dall’architetto celeste Pisnukar. Angkor Vat, Ta Prohm, il poderoso Bayon piazzato nel cuore di Angkor Thom – la città costruita da Jayavarman VII che in epoca medievale contava un milione di abitanti – sono oggi la meta obbligata dei circuiti turistici. Ogni giorno migliaia di visitatori, in gran parte appartenenti all’emergente classe media asiatica, invadono gli spazi sacri concepiti per ospitare la meditazione dei monaci buddisti. «Gli dèi hanno abbandonato i templi», lamentano gli abitanti dei villaggi sparsi nella foresta. Troppa gente, troppo rumore. «Scarabocchiano con graffiti le steli ancora in loco», deplora Claude Jacques, il grande specialista di epigrafia sanscrita e khmer, «danneggiando iscrizioni uniche, come quelle del magnifico Presat Kravan, che ci tramandano i soli esempi di letteratura khmer esistenti».
Il problema della gestione del turismo, «male necessario» in crescente aumento, passato dalle 200 mila presenze del 2001 ai tre milioni del 2013, è una delle sfide principali messe sul tappeto a Siem Reap in un convegno organizzato dal Cic (Comitato Internazionale di Coordinamento per Angkor) e dall’Autorità nazionale Apsara, svoltosi nei giorni scorsi a vent’anni dall’iscrizione del sito sulla lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. In due giorni di lavori, 330 delegati di ventitré paesi, in presenza del primo ministro cambogiano Hun Sen - segno tangibile che la salvaguardia di Angkor non è estranea alle strategie del potere -, si sono concentrati sulle misure da adottare in questa fase critica. «La situazione attuale non ha niente a che vedere con quella di vent’anni fa», spiega Azedine Beschaouch, archeologo tunisino, ministro della Cultura del suo Paese subito dopo la rivoluzione di tre anni fa, accademico di Francia e segretario scientifico permanente del Cic. «Quindi dobbiamo adattarci alla nuova realtà, facendo attenzione a che non si creino situazioni irreversibili».
Il Cic coordina e valuta i progetti scientifici proposti dai vari paesi. I suoi esperti internazionali ad hoc – fra cui l’italiano Giorgio Croci, professore di ingegneria strutturale, il francese Pierre-André Lablaude, capo architetto dei monumenti storici, l’algerino Mounir Bouchenaki, archeologo e storico, il giapponese Kenichiro Hidaka, professore di storia e di architettura – si ritrovano regolarmente per visitare i cantieri e gli scavi archeologici, esprimere il loro parere, formulare raccomandazioni. L’urgenza da affrontare senza indugio, a detta di tutti, è il disastroso disboscamento del Phnon Kulen, la montagna sacra, dalla quale nascono i fiumi che alimentano il parco archeologico e la città adiacente di Siem Reap. I contadini dei dieci villaggi della montagna tagliano gli alberi per venderne il legno o per coltivare le cashew nuts, sorta di noccioline che crescono rapidamente e distruggono il terreno.
«Impossibile evitare queste pratiche», sottolinea ancora il professor Beschaouch, «finché non vengono presi in seria considerazione il benessere e la responsabilizzazione della popolazione locale, attualmente poverissima; la sua partecipazione ai benefici finanziari legati all’afflusso turistico è prioritaria, come è fondamentale la creazione di una nuova generazione di esperti cambogiani nel campo archeologico, della conservazione e del restauro, affinché un domani siano autosufficienti. Devo citare a questo proposito l’eccellente lavoro svolto dai professori dall’università di Palermo, in partenariato con le università reali cambogiane, per la formazione dei primissimi esperti locali in materia di restauro delle sculture». Un insegnamento che aspetta soltanto di essere messo in pratica, poiché l’inquinamento e gli escrementi dei pipistrelli stanno irreversibilmente attaccando le decorazioni di alcuni templi, Angkor Vat in particolare.
Fra tutti però il progetto più entusiasmante è senz’altro quello del giovane e geniale ingegnere cambogiano Hang Peou che sta ripristinando l’antico sistema idraulico dell’impero khmer, abbandonato da tempo immemorabile, e in gran parte scomparso. «I baray (immensi contenitori d’acqua), le vasche e i canali», spiega, «costituivano una rete sofisticata e coerente di captazione, circolazione e conservazione dell’acqua, per l’irrigazione e gli usi domestici. È fondamentale ricordare il ruolo chiave dei fossati intorno ai templi, indispensabili per evitare le inondazioni nella stagione piovosa, e fondamentali per ricaricare, nella stagione secca, la falda freatica responsabile della stabilità dei monumenti». Dopo cinque anni di studi, ricerche e conversazioni con gli abitanti della foresta, Hang Peou è già riuscito a riempire il baray nord, a secco da secoli, e ad alzare stabilmente il livello dell’acqua nel fossato intorno ad Angkor Thom. Un risultato straordinario.