Valentina Arcovio, La Stampa 27/12/2013, 27 dicembre 2013
SULLE STAMINALI C’È CHI APPROFITTA DELLA DISPERAZIONE DELLE FAMIGLIE
[Michele De Luca]
Il Centro di medicina rigenerativa «Stefano Ferrari» dell’Università di Modena e Reggio Emilia è stato definito dalla senatrice a vita Elena Cattaneo «un faro mondiale della ricerca sulle staminali». Un centro d’eccellenza, dove la ricerca di base si incontra e si intreccia con quella applicata, sotto la guida del professore Michele De Luca, che, con la sua principale collaboratrice Graziella Pellegrini, ha collezionato due primati mondiali: la creazione di un protocollo per la coltura di cellule staminali per la cura di lesioni alla superficie della cornea e la messa a punto di una terapia genica che si è rivelata efficace contro l’Epidermolisi Bollosa, una malattia rara che provoca il distacco della pelle. Grazie al primo lavoro sono stati curati oltre 300 pazienti, mentre con la terapia genica è in atto una sperimentazione clinica di fase 1/2 grazie alla quale è stato possibile curare le gambe di un uomo. Mentre ora, sono in fase preclinica le ricerche sulla ricostruzione dell’uretra e della mucosa orale.
Professore, le staminali sono una panacea di tutti i mali?
«Assolutamente no. Anche se negli ultimi tempi, purtroppo, molte persone hanno iniziato a crederci. Vorrei anch’io che fosse così, ma la ricerca sulle staminali ha ancora bisogno di molto tempo prima di rivelarsi utile».
Ma che hanno di tanto speciale queste cellule?
«Le staminali sono cellule che consentono di mantenere, generare e rigenerare il tessuto in cui si sono specializzate. Quelle ematopoietiche, cioè quelle del sangue, permettono la generazione e rigenerazione di globuli rossi, piastrine, ecc. Quelle della pelle permettono la rigenerazione dell’epidermide, del pelo, della ghiandola sebacea, e così via. Invece, le uniche staminali in grado di specializzarsi in tutti i tessuti sono le embrionali o le staminali pluripotenti indotte (iPS), cioè cellule staminali adulte riprogrammate e pronte a specializzarsi in altri tessuti».
Grazie a queste cellule quali terapie abbiamo oggi?
«Le uniche staminali che hanno dimostrato di avere una reale efficacia in un contesto clinico sono quelle ematopoietiche e quelle epiteliali. Le prime usate nel trattamento di patologie quali la leucemia, le seconda per la terapia di gravi ustioni. Per il resto si tratta di un campo di studi ancora aperto su cui non si hanno certezze. Per alcune staminali, come le embrionali e le iPS sono iniziate le prime sperimentazioni cliniche».
Le staminali mesenchimali, quelle che userebbe Stamina, sono promettenti?
«Le cellule mesenchimali servono a generare tre tessuti: cartilagine, osso e grasso. Non neuroni. Sulle mesenchimali ci sono diverse sperimentazioni in corso, che al momento non hanno prodotto alcun risultato clinicamente rilevante. Nella maggior parte dei casi non si hanno neanche notizie dell’esito di questi studi».
Eppure, moltissime famiglie sono convinte della bontà delle mesenchimali trattate con il metodo Stamina?
«Nel mondo, e purtroppo anche in Italia, vengono proposti ciclicamente presunti trattamenti miracolosi per malattie gravi, privi di razionale e assolutamente senza alcuna efficacia. Basta pensare al caso di Di Bella. Questa volta è il turno di Stamina, un presunto metodo a base di staminali che non ha dimostrato di avere alcuna valenza scientifica e terapeutica. Ci si sta approfittando della disperazione delle famiglie dei malati gravi, infischiandosene dei limiti e delle regole della scienza».
Quali step bisogna superare prima che una terapia a base di staminali arrivi in clinica?
«Prima di tutto si fa una ricerca di base solida. Dopo la pubblicazione dei risultati, si raccolgono evidenze precliniche con studi sugli animali. E solo dopo si passa alla sperimentazione sull’uomo, che prevede tre fasi ben distinte, e i cui risultati vanno resi pubblici. Praticamente tutto quello che Stamina non ha fatto».
Tutto questo non rischia di rallentare lo sviluppo di nuove terapie?
«Sì, certo, ma sono step e regole indispensabili per dimostrare la sicurezza e l’efficacia di una nuova terapia e per garantire ai pazienti che il nuovo trattamento proposto non è semplice alchimia».
Perché le staminali coltivate sono considerate alla stregua di farmaci e non di trapianti?
«Perché la regolamentazione sui farmaci è molto più severa, come è giusto che sia. Quando coltiviamo le cellule usiamo cocktail di fattori di crescita e ormoni. E’ un processo molto complesso che ha bisogno di maggiori garanzie, addirittura più di un normale farmaco. Per questo in tutti i paesi sviluppati ci sono regole di tipo “farmaceutico”, che dovrebbero essere ulteriormente adattate alle peculiarità delle colture cellulari. E’ certamente vero che alcune regole del farmaco classico potrebbero essere semplificate, soprattutto quando si parla di colture cellulari autologhe, ma sui razionali e le evidenze pre-cliniche ci vorrebbe più severità, proprio perché le cellule sono entità più complesse».