Umberto Eco, l’Espresso 27/12/2013, 27 dicembre 2013
TROPPE DATE PER NERO WOLFE
Per ragioni del tutto umorali ho dedicato i due mesi prenatalizi a rileggere (o a leggere ex novo) le 80 storie di Nero Wolfe e, immergendomi in quell’amabile universo, mi sono sorti alcuni problemi che già hanno ossessionato gli affezionati di Rex Stout. Primo tra tutti, a quale numero civico stava o sta la famosa casa di arenaria delle 35a Street West? The Wolfe Pack (un’associazione di appassionati delle storie di Nero Wolfe) ha indotto la città di New York, nel 1966, a porre una targa celebrativa al numero 454, ma Stout nel corso dei suoi romanzi ha menzionato numeri civici diversi – in "Nero Wolfe e sua figlia" il 506, in "Troppi clienti" il 618, in "Non ti fidare" il 902, in "I quattro cantoni" il 914, in "La scatola rossa" il 918, in "Morto che parla" il 922, in "Nero Wolfe: invito a una indagine" il 939, eccetera.
MA FOSSE QUESTA l’unica incertezza della saga: ci viene detto per esempio che Wolfe, di origine montenegrina, sarebbe però nato a Trenton, essendo poi andato in Montenegro solo da ragazzo, ma varie volte Wolfe cita il fatto di essere stato naturalizzato abbastanza tardi come cittadino Usa, e quindi non sarebbe nato nel New Jersey. Probabilmente è nato nel 1892 o 93. Ma se così fosse nell’ultima sua storia, che è del 1975, avrebbe ormai 83 anni, mentre appare giovanile come nella prima, che è del 1934. Per non dire di Archie Goodwin, che da vari indizi sembrerebbe nato nel 1910 o 1912 ma, nelle storie che si svolgono chiaramente ai tempi della guerra del Vietnam e anche dopo, dovrebbe ormai avere quasi 60 anni, mentre appare sempre come un playboy sulla trentina capace di ammaliare fascinose ventenni, e di stendere con un diretto magistrale personaggi ben più robusti di lui.
Insomma, un autore che sapeva descrivere senza errori da libro a libro la pianta della casa di Wolfe, i cibi che mangiava, le diecimila orchidee che coltivava, specie per specie, non aveva mai pensato di tenere uno schedario generale (biograficamente attendibile) dei suoi personaggi? La spiegazione deve essere un’altra.
Accade in molte saghe popolari che i personaggi non abbiano età e non invecchino mai. Non ha età Superman, non l’aveva la Little Orphan Annie (sulla cui eterna infanzia si erano fatte molte parodie), non l’ha mai avuta l’Uomo Mascherato, fidanzato a Diana Palmer per circa cinquant’anni. Il che consentiva ai loro autori di farli sempre agire in un eterno presente. Così avviene per Wolfe e Goodwin, perennemente giovani. Ma nel contempo le storie di Stout si reggono anche sulla precisione dei particolari, lo sfondo storico (lui e Archie partecipano come agenti del governo alla seconda guerra mondiale o hanno a che fare col maccartismo), i dettagli quasi ossessivi delle strade, degli angoli, dei negozi, dei percorsi dei taxi e così via. Come mantenere in un’eternità immobile vicende che avevano bisogno di continui riferimenti a momenti storici e ad ambienti precisi? Confondendo le idee al lettore.
STOUT, NEL FARCI TURBINARE davanti agli occhi della memoria date discordanti e anacronismi insopportabili per chi lo leggesse con un calcolatore alla mano, voleva che, mentre fingeva un realismo esasperato, vivessimo in una situazione quasi onirica. Come a dire che aveva una sua idea non banale della finzione letteraria e non a caso aveva iniziato la sua carriera di scrittore, sia pure con scarso successo, come un narratore quasi sperimentale, con "Due rampe per l’abisso". E conosceva i meccanismi della ricezione: non presumeva che i suoi lettori facessero come me e leggessero tutta la sua opera omnia in un sol colpo, ma sapeva che tornavano ai suoi libri a intervalli annuali, e quindi dopo che la loro memoria si era ragionevolmente confusa circa le cronologie. Giocava sul ricordo fedele (e l’attesa) delle situazioni ricorrenti (tic di Wolfe, meccanismi delle serate conclusive, soste in cucina) ma sulla dimenticanza dei grandi eventi. E infatti possiamo rileggere più volte queste storie col piacere di ritrovare sempre gli stessi elementi invariabili ma avendo dimenticato la cosa più importante, e cioè chi era l’assassino.