Fabrizio Gatti, l’Espresso 27/12/2013, 27 dicembre 2013
UOMO DELL’ANNO
Quest’uomo è il personaggio dell’anno. La mattina del 3 ottobre Costantino Baratta, 56 anni, muratore, è uscito in barca dal porto di Lampedusa ed è entrato nella cronaca di una tragedia che ha segnato indelebilmente il 2013. Inginocchiato su un piccolo scafo di cinque metri e mezzo, Costantino ha sollevato dall’acqua 11 ragazzi e una ragazza alla deriva nel mare piatto ricoperto dai riflessi arcobaleno della nafta. Li ha afferrati dai pantaloni per tirarli a bordo come manichini stremati. E quando li ha trovati completamente nudi, si è aggrappato alla loro pelle unta di carburante fino ad adagiarli ai suoi piedi. Quei 12 profughi eritrei sono stati gli ultimi ripescati vivi dal naufragio del peschereccio che dalla Libia li aveva portati a poche centinaia di metri dalla scogliera di Cala Madonna. Un gesto che ha fermato il bilancio a 153 superstiti e 366 morti: uomini, donne e 16 bambini annegati per aver cercato scampo dal pugno di ferro del presidente Isaias Afewerki, dittatore africano e caro amico del governo italiano.
L’Espresso ha voluto dedicare la copertina dell’anno a Costantino Baratta e con lui a tutti coloro che quella mattina, come tante altre mattine negli ultimi vent’anni, si sono ritrovati in mare: i lampedusani e i profughi, i soccorritori e i naufraghi, sopravvissuti e annegati, salvati e sommersi lungo questa prima linea d’Europa. Una linea che taglia in due Lampedusa. Di qua gli uomini, le donne, i bimbi nella loro e nostra essenza di esseri umani. Quel sentir comune che ci unisce come individui liberi. Che non fa differenza tra amici o nemici. Connazionali o stranieri. Cittadini o clandestini. Di là le menzogne che regolano le democrazie malate del nostro tempo. Sono le menzogne di cui siamo stati testimoni in questi mesi. Quando le vittime del naufragio sono state sepolte di nascosto e i funzionari del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, hanno organizzato funerali di Stato senza bare. Quando alla commemorazione ufficiale hanno potuto partecipare l’ambasciatore del regime eritreo e gli agenti segreti di Asmara che hanno fotografato tutti i presenti, ministri compresi, grazie a un’incredibile autorizzazione della questura. Quando la Costituzione è quotidianamente violata con la reclusione a Lampedusa, illimitata e senza processo, di profughi che non hanno mai commesso reati. Quando nel centro di detenzione la dignità umana viene offesa dalla fallimentare gestione della prefettura di Agrigento e della cooperativa "Lampedusa accoglienza" che di accogliente non ha proprio nulla. Basta riguardare le fotografie dei bambini messi a dormire sotto gli alberi tra gli escrementi dei cani randagi, come ha denunciato "l’Espresso" due mesi fa. Oppure rivedere il video mandato in onda dal Tg2 con i sopravvissuti alla traversata denudati all’aperto, in coda al freddo e irrorati di disinfettante come si fa con le carcasse degli animali morti. Queste oscenità nei periodi di maggior affluenza rendono anche 21 mila euro al giorno ai manager di "Lampedusa accoglienza". Una società selezionata a suo tempo dal governo di Silvio Berlusconi tra le aziende amiche del Partito democratico: così che nessuno si possa più lamentare dell’indecenza con cui la prefettura, il ministero e lo Stato trattano la questione Lampedusa.
ANCHE IL CONCETTO DI LEGALITÀ ORMAI è completamente stravolto. Lo si vede da come la Costituzione, il codice penale e l’elementare diritto alla dignità vengano impunemente calpestati sotto gli occhi indifferenti di poliziotti e carabinieri. Sono sempre i richiedenti asilo in fuga da guerre e regimi a denunciare gli abusi, non i pubblici ufficiali italiani in servizio sull’isola. Nel 2005 la Procura di Agrigento sembrava sul punto di avviare finalmente un’inchiesta. La prima vera indagine sui maltrattamenti. Un testimone, interrogato per quasi 11 ore da un magistrato, aveva messo a verbale quello che aveva visto: pestaggi per gioco da parte dei sorveglianti, reclusi costretti a camminare a piedi nudi o a sedersi nei liquami fognari, soldi sottratti ai minorenni sbarcati. L’inchiesta alla fine c’è stata. Ma contro il testimone, processato (e assolto) per il reato di false generalità. Il verbale con le 11 ore di interrogatorio e i successivi riscontri della squadra mobile è invece andato in prescrizione in un cassetto. Quel testimone, interrogato dopo essere rimasto otto giorni rinchiuso nel centro di detenzione con il falso nome di Bilal Ibrahim el Habib, ero io.
Eppure lo Stato è presente, eccome. Solo che i suoi rappresentanti sembrano dimenticarsi da che parte stiano la legge e l’umana pietà. I loro occhi sono diventati miopi. Oppure si sono talmente abituati alla violazione delle regole che, come nel 2005, fingono di non vedere. Sulla strada che dal porto turistico sale alla collina di calcare, dove Costantino Baratta abita con la moglie, è un viavai di blindati della polizia con i lampeggianti accesi. Stanno aspettando altri 200 profughi. Due motovedette della guardia costiera sono uscite a recuperare i passeggeri di un barcone a 180 miglia a Sud. Il mare è leggermente mosso. Lungo la prima linea invisibile che divide l’isola, i marinai della capitaneria di porto non sono diversi dai lampedusani. La copertina dedicata a Costantino Baratta rappresenta anche loro, costretti a rischiare spesso per gli ordini ricevuti in ritardo da Malta o da Roma. Un conto è la burocrazia omicida degli accordi internazionali che regolano il soccorso. Un altro sono gli equipaggi mandati a 70 all’ora sull’acqua, al buio, a fare il loro lavoro. Come è accaduto l’11 ottobre nel terzo naufragio in 11 giorni quando a 60 miglia al largo, lo scaricabarile tra Roma e Malta ha lasciato annegare più di 260 siriani, tra i quali una sessantina di bambini.
«Quella mattina del 3 ottobre», dice Baratta, «io ho visto come la motovedetta dava soccorso. Ho visto un operatore della guardia costiera in acqua stravolto, stanco, sfinito. Addirittura ha quasi rischiato di vomitarmi addosso della nafta. Quando abbiamo trasbordato sulla motovedetta quelli che avevamo recuperato, questo addetto al salvataggio si vedeva che aveva ingerito della nafta e ha vomitato. Era stanco pure perché ne aveva soccorsi tanti. Non mi sono sentito di criticare della gente che per me aveva fatto il massimo che poteva».
CHI È COSTANTINO BARATTA? «Sono un muratore», risponde lui, seduto al tavolo del soggiorno in tuta da ginnastica, due pupille azzurrissime dietro gli occhiali da vista: «Una persona normale. Faccio il mio mestiere. Qui a Lampedusa ho lavorato abbastanza bene, non mi è mancato mai il lavoro. Vivo a Lampedusa dal 1987, da 26 anni, residente fisso. Però la prima volta sono venuto nel 1976, essendo fidanzato con una lampedusana che ha studiato e si è diplomata alle magistrali a Trani. Io sono di Trani. Dopo dieci anni di matrimonio, c’era da costruire una casa qui, nella proprietà di mio suocero da sistemare. Io, essendo muratore, sono venuto a costruire questa casa, che è in paese. La decisione è stata quella. All’inizio era per stare qui un paio di anni, finire la casa e ritornare a Trani. Poi invece mi ci sono ambientato benissimo. Mi piace tanto e non sono più andato via. Mio figlio è cresciuto a Lampedusa. Quando abbiamo portato il bambino qui aveva tre anni. Oggi ne ha 30. Mio figlio vive a Milano con la sua compagna. Siamo qui da soli, io e mia moglie, con il resto dei parenti. Mia moglie accudisce il padre che ha 92 anni. Una famiglia normale, come tante».
Giovedì 3 ottobre il sole sorge su un mare piatto. La temperatura è ancora estiva. E la prima luce dell’alba illumina una distesa di cadaveri e di sopravvissuti che galleggiano da ore a poco meno di un chilometro a Sud di Cala Madonna e Punta Pagghiareddu. «Quel giorno mi sono svegliato verso le sei, sei e un quarto», racconta Baratta, «perché avevamo deciso con il proprietario della barca, Onder Vecchi, di uscire per una battuta di pesca. In quel periodo non stavo lavorando perché era ancora stagione di turismo. Volevamo prendere due tonnetti o fare due lenzate a dentici e orate. Onder è un mio amico pensionato che ha qui la sua barca. Solo che non appena siamo usciti dal porto che erano le sette, sette e cinque, abbiamo visto prima la motovedetta e poi due barche vicine alla motovedetta. Ho detto a Onder: avviciniamoci e vediamo».
PROPRIO IN QUEL MOMENTO IL PICCOLO SCAFO con i due amici diventa la salvezza per i sopravvissuti stremati che la corrente ha allontanato dai primi soccorritori. «Mentre ci avvicinavamo a queste barche, abbiamo visto gente in mare che si sbracciava e urlava», ricorda Baratta: «Quindi abbiamo cominciato a recuperarli perché li avevamo sotto bordo. Nell’arco di un quarto d’ora, 20 minuti ne abbiamo tirati su otto o nove. E la barca già era un po’ carica. Però da un peschereccio ci urlava una donna, che poi era Grazia, una ragazza di Catania che ha il negozio a Lampedusa. Urlava:correte, andate voi che siete più agili, a prendere gli altri perché c’era ancora gente in acqua che si sbracciava. Abbiamo recuperato ancora altre due persone. Erano nudi, tutti sporchi di nafta che scivolavano come saponette. Dalla motovedetta ci hanno detto: recuperate i vivi e lasciate stare i cadaveri».
È così che il corpo di Uam, una ragazza di 24 anni ormai alla deriva tra i cadaveri, viene riportato nel mondo dei vivi. «Pensavamo che fosse un altro morto», racconta Costantino Baratta: «Galleggiava con le braccia aperte. Abbiamo visto che ha mosso la mano e con un filo di voce diceva: help me, help me, aiutatemi. Onder esclama: è una ragazza. Ha accostato lentamente. Le ho dato la mano ma la ragazza non ce la faceva, era oramai esausta. L’ho tirata, l’ho avvicinata alla scaletta ma non ce la faceva da sola a salire e ho detto a Onder: lascia il timone, vieni ad aiutarmi perché questa non riesco a prenderla come gli altri. Quindi io l’ho presa da una ascella, Onder dall’altra. L’abbiamo issata a bordo. Vomitava nafta, tossiva. Ho preso una bottiglia d’acqua che avevamo a portata di mano, le ho sciacquato il viso, le ho dato un sorso d’acqua che non ha ingerito, l’ha vomitato subito insieme ad altra nafta. Ho visto che era tutta sporca, anche gli occhi. Mi sono tolto la mia canottiera, l’ho inzuppata di acqua dolce. E le ho lavato il viso, le ho dato una strofinata ai capelli. Poi lei era molto infreddolita, mi ha fatto capire che aveva freddo. Allora l’ho avvolta nella canottiera e ho cercato di riscaldarla un po’ in modo che si riprendesse. Però si vedeva che stava male».
Costantino spiega che, dopo quel giorno, ha voluto incontrare Uam e gli altri ragazzi. Li ha ospitati a casa. Ha messo a disposizione il telefono e il computer perché contattassero i parenti in Europa e i genitori in Eritrea. Ora Uam è in Svezia. Gli altri ragazzi in Germania e a Roma. Tranne due, bloccati dal 3 ottobre a Lampedusa per avere accettato di testimoniare contro gli organizzatori del viaggio. «Una sera, era buio, ho sentito suonare al citofono e me li son visti presentare tutti», sorride Baratta: «Costantino sono Robel, ha detto lui, sono con gli altri ragazzi che avete salvato. Sono arrivati qui in nove quella sera. Allora li ho fatti accomodare in casa. Li ho riconosciuti, a mano a mano che li andavo visualizzando. Erano loro che mi dicevano: tu mi hai preso per i pantaloni, a me hai dato l’asciugamano. Un po’ in inglese, un po’ in italiano. Insomma ci siamo fatti capire. Ora con alcuni di loro sono in contatto su Facebook». In che lingua comunicate? «Uam e i ragazzi scrivono in inglese. Io traduco delle frasi con il traduttore sul computer, me le scrivo e poi gliele riscrivo su Facebook e le mando. Uam dice che deve tornare a Lampedusa perché mi deve restituire il telefonino che le abbiamo prestato. Dice che non appena avrà i documenti in Svezia, verrà a trovare me e mia moglie».
PERCHÉ FATE QUESTO? «Non lo so», risponde, «forse è una cosa innata che abbiamo sull’isola. O perché veniamo da generazioni di emigranti. Un senso di accoglienza lo abbiamo anche noi, essendo emigranti. Tutti i lampedusani hanno aiutato tutti». E cosa resta dentro dopo aver vissuto un naufragio dalla parte dei soccorritori? «Ognuno di noi la vive in modo diverso. Io per un mesetto rifiutavo di andare a lavorare. Parlavo sempre della tragedia. Ecco, forse è stato un bene parlarne. Ma tra i soccorritori c’è chi non ne vuole parlare assolutamente. Un altro, Domenico Colapinto, ho saputo che è in cura da uno psicologo perché non riesce più ad andare in mare a lavorare. Fa il pescatore. Gli ho scritto dei messaggi su Facebook, deve avere coraggio. La vita continua. Vedendo che con i ragazzi dopo due o tre giorni ci parli, vedi che stanno bene... L’unico rammarico che ho, insieme a Onder, è che quel giorno siamo usciti a pescare in ritardo. Penso sempre che se fossimo usciti mezz’ora prima avremmo salvato molta più gente. Perché noi eravamo quelli più agili avendo un fuoribordo, avendo uno scafo basso. Ogni tanto quando sono solo ci ripenso. Ogni tanto riguardo le immagini della tragedia».
E se Lampedusa dovesse ricevere il Nobel per la pace, lei come spenderebbe il denaro del premio? «Comincerei dalle scuole: abbiamo bambini e ragazzi che fanno i doppi turni, vanno a scuola il pomeriggio tardi perché non ci sono abbastanza aule agibili. Poi la sanità: bisogna portare a Lampedusa una Tac o una risonanza magnetica, in modo da risparmiare sul costo dell’aereo perché ogni volta dobbiamo andare a farci visitare a Palermo. E aggiusterei tutte le strade, perché sono disastrate: parlo da muratore e da lampedusano che, per colpa delle strade, spende un sacco di soldi per riparare la macchina».