Cesare Peruzzi, Il Sole 24 Ore 27/12/2013, 27 dicembre 2013
RIASSETTO AZIONARIO CERTO MA DALL’ESITO IMPREVEDIBILE
La partita che si gioca a Siena è destinata a lasciare il segno ben oltre le mura della città toscana. Il risvolto locale c’è, naturalmente, e ha un peso relativo enorme per i territori di riferimento della Fondazione e di Banca Monte dei Paschi. Ma il destino del gruppo di Rocca Salimbeni e del suo principale azionista va a impattare anche sugli equilibri del sistema a livello nazionale, con risvolti che coinvolgono il Governo e perfino la Commissione europea.
Il Monte non fa eccezione al dettato biblico che le colpe dei padri finiscono per ricadere sui figli. Nata nel 1995 per partenogenesi dall’allora istituto di diritto pubblico Monte dei Paschi trasformato in società per azioni, la Fondazione Mps è diventata maggiorenne crescendo all’ombra di un equivoco drammatico: emanciparsi e lasciare che la stessa banca si emancipasse, oppure restare chiusa nel bozzolo senese insieme alla sua unica fonte di sostentamento, cioè il gruppo di Rocca Salimbeni? La legge Ciampi avrebbe dovuto indicare la strada giusta in tempi non sospetti, quando ancora il patrimonio rappresentato dalla partecipazione nella banca (fino al 2011 sopra il 50%) si contava in diversi miliardi.
La storia è nota, così come le responsabilità politiche che hanno impedito una sana e corretta separazione di ruoli e interessi tra il Monte e la sua Fondazione. Anche i motivi sono evidenti: basti dire che questo sistema è arrivato a pesare per oltre un miliardo all’anno sul Pil locale, tra erogazioni, stipendi e sponsorizzazioni varie. Ma non sarebbe giusto dimenticare che nessuno (istituzioni e organi di vigilanza compresi) è intervenuto per interrompere questo legame incestuoso: la Fondazione era la cinghia di trasmissione del potere politico locale (a colorazione Pds-Pd, ma con un occhio di riguardo anche alle minoranze) e la banca produceva e distribuiva ricchezza, spesso malcelando insofferenza verso un azionista così ingombrante.
Talmente ingombrante che nel 2006 il presidente della Fondazione, Giuseppe Mussari, trasloca a Rocca Salimbeni e diventa il numero uno di Banca Mps. Da quel momento le scelte del "babbo Monte" ricadranno sulle spalle dell’Ente, incapace di mollare gli ormeggi della banca, «perchè questo volevano le istituzioni locali di riferimento» come ha dichiarato Gabriello Mancini, presidente della Fondazione fino allo scorso agosto. Dal 2008 al 2012, in meno di quattro anni, per sostenere l’acquisto da Antonveneta da parte del Monte e la conseguente ripatrimonializzazione di Rocca Salimbeni, l’Ente di Palazzo Sansedoni ha investito 4,5 miliardi, s’è indebitato e ha visto ridursi il proprio patrimonio da 6 miliardi a meno di un miliardo, quasi interamente rappresentato da quel 33,5% di Mps.
Antonella Mansi, che tre mesi fa ha raccolto i cocci della Fondazione, sta provando a salvare il salvabile e per questo ritiene indispensabile esercitare il ruolo di azionista di maggioranza relativa e non sottostare alle decisioni della banca. I vertici del Monte, da parte loro, impegnati a rilanciare il gruppo evitando la nazionalizzazione, sono pronti a realizzare quello strappo con la Fondazione fin qui neppure immaginabile. L’assetto azionario della terza banca del Paese sta per cambiare. Ma ancora nessuno è in grado di dire come. Forse, più che la citazione biblica sulle colpe dei padri, questa storia ricorda il "Castello dei destini incrociati" di Italo Calvino. Che a Siena è morto.