Marco Cicala, il Venerdì 27/12/2013, 27 dicembre 2013
I FANTASMI DEL SIGNOR K
[Serge Klarsfeld]
Parigi. Questa intervista non sarebbe stata possibile senza un uomo e un armadio. Meglio: senza il sacrificio di un uomo e il contributo di un armadio. L’uomo si chiamava Arno Klarsfeld, ebreo nato a Braila – Romania – il 20 gennaio 1905 e ucciso ad Auschwitz il 2 novembre 1943, dopo aver steso a pugni un kapò. L’armadio era invece quello in cui lui nascose la moglie Raissa e i figli Serge e Georgette durante le retate naziste a Nizza – settembre ‘43. «Se i tedeschi ci prendono, io ce la farò perché sono forte. Voi no» disse Monsieur Klarsfeld ai familiari. Suo figlio Serge aveva otto anni. Oggi ne ha settanta di più. Oltre quaranta dei quali trascorsi inseguendo ex nazisti dall’Europa al Sudamerica al Medioriente. Sempre in tandem con la moglie Beate Künzel. Fu lei che, il 7 novembre 1968, a Berlino, si infilò al congresso della Cdu – il partito di Angela Merkel – e mollò un ceffone all’allora cancelliere Kurt Georg Kiesinger.
Due anni prima «leggendo Le Figaro, avevamo scoperto che era stato iscritto al Partito nazista, ricoprendo cariche importanti nei servizi radiofonici di propaganda» ricorda Serge Klarsfeld nella lunga introduzione autobiografica a La traque des criminels nazis (La caccia ai criminali nazisti, edizioni Tallandier), avvincente antologia di inchieste pubblicate lungo mezzo secolo dal settimanale L’Express.
Storico, avvocato in pensione, Klarsfeld è un signore paffuto, meticoloso, serissimo. Ha ritrovato e trascinato in tribunale il macellaio di Lione Klaus Barbie (ergastolo, 1987); in Germania ha stanato e fatto processare, tra gli altri, il gerarca della Gestapo Kurt Lischka (condanna a 10 anni, ma nella Repubblica Federale «fu l’unico grande processo esemplare »); ha svolto un ruolo decisivo nei procedimenti contro i funzionari del regime di Vichy Maurice Papon, Paul Touvier, Jean Leguay, René Bousquet. Eppure oggi Serge Klarsfeld dice: «La caccia ai criminali nazisti è un mito». Perché mai? «Di fatto, le potenze alleate li hanno attivamente ricercati solo tra il 1945 e il ‘47. Appena comincia la Guerra fredda, finisce tutto. Certo, c’erano stati grandi processi come Norimberga, importantissimi specie per la documentazione raccolta. Ma quando cala la cortina di ferro nessuno vuol più alienarsi l’opinione pubblica tedesca. Fino al 1960 gli ex nazisti vivono tranquilli».
Dove?
«Al novanta per cento in Germania e in Austria».
E l’America Latina, il Medioriente?
«Ne accolsero una minoranza. Gente che non voleva più vivere in Europa, sotto il giogo alleato. Gente che puntava a rifarsi una vita, a guadagnare soldi».
Mentre quelli rimasti in Germania?
«Si riciclarono nella società post-bellica. La classe politica non intendeva processarli. Non furono varate leggi speciali. La pena di morte venne abolita. Secondo il principio che i tedeschi non possono uccidere altri tedeschi».
Nel ‘60, la cattura e il processo Eichmann riaprono i giochi.
«Con quell’operazione Israele prese parecchi rischi diplomatici con i Paesi sudamericani che gli erano amici. Ma si voleva attrezzare moralmente l’opinione pubblica di uno Stato giovane. Mostrare quale era stata la sorte di due terzi degli ebrei che vivevano in Europa».
Però lei scrive: Anche quella di una caccia spietata condotta da commandos di giustizieri ebrei è una leggenda.
«Libri e film hanno alimentato questo mito. Ma nessun criminale nazista è mai stato ucciso da vendicatori ebrei in azioni illegali. Personalmente, in qualche occasione, io ho pensato di vendicarmi. Però a che cosa sarebbe servito? L’entità di quel gesto sarebbe stata ridicola rispetto all’enormità dei crimini commessi. Vendetta e violenza sono concepibili solo come atti di disperazione».
Perché Israele non ha ripetuto blitz modello Eichmann contro i criminali che vivevano in Germania e in Austria?
«Con la Germania andavano avviate relazioni diplomatiche. Ed esistevano accordi economici per le riparazioni post-guerra».
Realpolitik.
«Non vai a violare leggi di un Paese con cui stai cooperando. Quanto all’Austria, era canale d’uscita per gli ebrei in fuga dal blocco orientale».
Uno si immagina chissà quali spedizioni segrete. Ma per scovare gli ex nazisti in Germania vi bastò sfogliare elenchi telefonici, certificati di stato civile all’anagrafe, liste degli ordini professionali.
«Kurt Lischka era diventato dirigente di una grossa azienda agroalimentare. Dall’esportazione di ebrei verso i lager era passato all’esportazione di cereali. In parecchi s’erano riciclati nella grande industria. Altri nella pubblica amministrazione o nella polizia. Moltissimi nella magistratura. Heinrich Illers, ex capo della Gestapo a Parigi, lo ritrovammo in Bassa Sassonia. Presidente di un tribunale specializzato in vittime di guerra. Mia moglie lo chiamò al telefono. Gli chiese: Ricorda per caso il nome dell’uomo che dirigeva la Gestapo parigina? E lui: Certo, si chiamava Beumelberg. Beate lo corresse: No, Beumelberg era capo della Gestapo nazionale. A Parigi, il numero uno era un altro: lei. Illers ebbe una crisi: Unmöglich! Unmöglich! urlava. Impossibile! Impossibile!».
Come funzionava la psicologia di quegli uomini?
«In modo semplice. Non avevano rimorsi, non si tormentavano. Avevano rimosso. La divisione del lavoro che governò lo sterminio è una chiave fondamentale per capire. C’era chi decideva, chi organizzava e chi eseguiva. Il criminale politico – ossia uno che non ha materialmente ucciso – si ritiene al di sopra di ogni responsabilità. Ai processi si limita a dire: Facevo il mio dovere, obbedivo, non sapevo che fine avrebbe fatto quella gente caricata sui treni. E qui viene il difficile».
Perché?
«Che uno sapesse, va dimostrato. Di Klaus Barbie un procuratore aveva detto: Non è provato che soggettivamente fosse al corrente del destino che attendeva i bambini inviati ad Auschwitz».
Dunque?
«Era necessario un testimone. Trovammo un ebreo che era andato da Barbie supplicandolo di non fucilare i prigioneri, ma – al limite – di deportarli. E si era sentito rispondere: Deportare o fucilare sono la stessa cosa. Quelle parole confermavano che Klaus Barbie sapeva quanto accadeva nei campi. Sa, in romanzi e film ci si vendica, si uccide. Ma la giustizia è una faccenda molto più complessa». E la caccia ai nazi non assomiglia neanche un po’ a un action movie. È lavoraccio usurante. Qualche volta frustrante. Ai coniugi Klarsfeld sono sfuggiti tanto il Dottor morte Josef Mengele quanto Alois Brunner, ingegnere della soluzione finale. Per non parlare dei sequestri finiti in flop. 22 marzo 1971: le proteste per far arrestare l’ex SS Kurt Lischka non hanno scosso l’opinione tedesca. Karlsfeld & Co. decidono di rapirlo. Lo aspettano alla fermata del tram. Dentro una Mercedes presa a nolo. Quando lui arriva provano a cacciarcelo dentro. Ma niente. «Ormai pesava 110 chili. Resisteva. Chiedeva aiuto. Noi lo si colpiva alla testa con un manganello. Arrivò un poliziotto. Siamo scappati. Buttando dai finestrini siringhe e fiale di cloroformio». Ma poi Lishka finirà sul banco degli accusati.
Questo il metodo-Klarsfeld: defibrillare l’opinione pubblica con operazioni sensazionali per ottenere leggi, processi e anche di più. «In Germania si trattava di condurre un’intera società alla consapevolezza di quanto era accaduto. Obbligare i figli a giudicare i padri».
Anche in questo senso, tra lei e Simon Wiesenthal c’era divergenza di vedute.
«Il suo lavoro di documentazione e raccolta di informazioni fu essenziale. Ma della società tedesca gli importava poco. Che ci fosse un cancelliere ex nazi per lui era uguale. Voleva trovare gli aguzzini che aveva visto in azione nei lager. Invece a Beate e a me quei bruti non interessavano. Puntavamo agli uomini d’apparato, individui che avevano ricevuto la migliore educazione nella Germania di Weimar, che disponevano di barriere morali, ma le avevano trasgredite per mettersi al servizio del nazismo. Noi andavamo sul terreno, a protestare fino a farci arrestare, Wiesenthal, lui, si limitava a fare conferenze stampa».
Ha seguito l’epilogo del caso Priebke?
«Sì. Che dirle? La giustizia ha riportato quell’uomo nel Paese dove aveva commesso il crimine. È stato processato, detenuto in condizioni umane ed è morto a quasi cent’anni. Mi pare che, al di là delle polemiche, l’Italia abbia fatto quanto doveva».
Anche Priebke era tutt’altro che pentito. Le sue ultime dichiarazioni hanno riaperto il dibattito sul negazionismo. Secondo lei va perseguito?
«Se qualcuno le dà dell’imbecille lei può denunciarlo. Non vedo allora perché non possa farlo se uno le dice: Lei è un bugiardo. Sua madre e suo padre non sono morti nei lager. Mi sembra normale che si proteggano queste persone e si punisca chi contesta i crimini contro l’umanità. Ora non dico che leggi del genere debbano restare in vigore in eterno. Quando le vittime non saranno più in vita, è possibile che ci si rimetta mano».
Non si rischia di trasformare i negazionisti in martiri della libertà d’espressione?
«La libertà d’espressione dovrebbe avere dei limiti fissati dalla legge. Prenda internet: lì si può dire qualsiasi cosa. E infatti il negazionismo impazza. Vede, un tempo, poteva succedere che un ebreo ricevesse lettere anonime con su scritto: Farabutto, vai raccontando in giro che i tuoi genitori sono morti ad Auschwitz, mentre sono vivi e vegeti a Tel Aviv. Sconvolto, quel tizio inoltrava la lettera ad altri dieci ebrei e questi ai loro amici. Così la menzogna si propagava. Adesso, col web, può assumere dimensioni spropositate».
Anche storici al di sopra di ogni sospetto si dicono contrari al reato di negazionismo.
«Personalmente, non mi sono mai sentito condizionato nel mio lavoro di storico. Quando in Francia si trattò di censire il numero di quelli che erano stati deportati per motivi razziali, il Ministero degli ex combattenti parlò di 100-120 mila persone. Con le mie ricerche mostrai che erano state “soltanto” 76 mila».
Veniamo a Brunner. Tra l’altro fu l’uomo che diresse i rastrellamenti nei quali venne arrestato suo padre. Che fine ha fatto?
«Si era rifugiato in Siria, sotto la protezione di Assad senior. Viveva blindato a Damasco nel quartiere degli alti funzionari. Le sue ultime notizie risalgono al 1991. Ritengo che sia morto poco dopo. Era molto malato».
Aveva anche subìto due attentati con pacchi bomba. Uno gli aveva strappato un occhio, l’altro due dita di una mano.
«Il primo avvenne durante la guerra di Algeria e c’era forse lo zampino della Francia. Brunner la odiava. Vendeva armi agli indipendentisti dell’Fln. Il secondo attentato potrebbe essere stato un atto individuale oppure opera dei servizi israeliani».
L’anno prossimo in Germania dovrebbe essere processato Hans Lipschis, lituano, ex guardiano ad Auschwitz. Un caso controverso.
«È accusato di esser stato presente sulla rampa all’arrivo di un convoglio proveniente dalla Francia il 25 giugno 1943. A bordo, 390 persone, tra cui moltissimi bambini. Vennero gasati quasi subito. Lui dice: Non c’entro. Ad Auschwitz facevo il cuoco. Ora, si può processare il cuoco di un lager? Stando alla legge tedesca, sì. In Germania, dopo decenni di inerzia, si è enormemente allargata la nozione di corresponsabilità. E, in teoria, chiunque abbia svolto un ruolo qualsiasi dentro una struttura concentrazionaria può essere giudicato. Io non ne sono tanto sicuro. Quali erano le mansioni di Lipschis? Si trovava davvero su quella rampa? Se sì, come si comportò? Ci costituiremo parte civile solo quando il suo coinvolgimento sarà dimostrato. Ma in questi casi reperire prove è complicato. Sui pezzi grossi abbonda la documentazione, sui piccoli è esile. Ci aggiunga che si tratta di processi con forte eco mediatica. Che solleticano il protagonismo di certi magistrati. Ti fai più pubblicità giudicando un ex nazista che un malvivente qualunque».
Quanti dossier restano aperti?
«Pochi. Se la Corte federale non si oppone, si arriverà al massimo a due o tre processi. Tutti contro piccoli esecutori. Nessuno di loro è tedesco. Né, a rigore, ex nazista. Per me nazista è uno che aveva 15 anni nel ‘33 ed è stato formato dall’hitlerismo. Mentre queste persone sono tutt’al più imbevute dell’antisemitismo che circolava in certi Paesi occupati».
Lipschis ha 93 anni. L’età è un buon argomento per non processare quelli come lui?
«Beh, a novant’anni non ti difendi bene come a 50 o 60. Il fisico cede. Soprattutto la memoria. Avrà presente il processo di qualche anno fa all’ucraino John Demjanjuk, guardiano nel campo di Sobibor... Lo portarono in aula in barella, perdeva bava dalla bocca, non disse una parola. Certo, si può giudicare più il crimine che il criminale. Ma, ridotto così, in quel vegliardo si faceva fatica a ritrovare il carnefice».
Marco Cicala