Giuseppe De Bellis, rivistastudio.com 24/12/2013, 24 dicembre 2013
IL VECCHIO E IL NUOVO TONI
È strano che spesso qui ci arrivi uno che molti davano per finito o per mai cominciato. Ci penso mentre scrivo: Maicon, Llorente, Pjanic, Kakà, forse pure Pepito Rossi. Ci penso perché adesso arriva Toni, cioè Luca Toni, uno che finito lo era per molti dal giorno stesso in cui lasciò Firenze per andare al Bayern Monaco. Aveva trent’anni, in fondo, ma quel Bayern non era quello di oggi, a molti parve una specie di diminutio andare in Germania. Ovviamente non era così: il Bayern Monaco è stata la più grande squadra in cui abbia giocato Toni. E i 38 gol in sessanta partite fatti in tre anni sono tanti: più di mezzo gol a presenza di media. Solo che all’epoca, a noi pareva lontano, la Bundesliga non aveva ancora superato per qualità l’Italia, e l’unico estero che aveva un senso era l’Inghilterra, oppure il Real e il Barcellona. Ci sbagliavamo, ora lo sappiamo. Toni, non si sa se volontariamente o involontariamente, aveva capito. Resta che la fine della sua carriera preconizzata da qualcuno il giorno dell’addio a Firenze, diventò una certezza più condivisa proprio alla conclusione dell’esperienza tedesca. A quel punto gli anni erano diventati 33 e l’arrivo a Roma come sostituto a tempo determinato del centravanti che non si riusciva a trovare sembrò una tappa di avvicinamento alla festa di addio. Altro errore. Perché Toni c’era. E perché Toni c’è ancora.
Altri quattro anni dopo e quattro squadre dopo siamo qui: sette gol nel Verona neopromosso che s’è praticamente salvato alla diciassettesima giornata di campionato. Con la solita arroganza di cui dispone la critica pallonara italiana, il suo acquisto era stato giudicato una via di mezzo tra la disperazione e lo strizzamento d’occhio passatista: prendo il grande vecchio, Campione del mondo 2006, capace forse di coinvolgere un gruppo, di tenerlo insieme, di farlo sentire all’altezza della Serie A. Prima partita: doppietta, con il Milan. Non sarà un risultato da fantascienza, visto come sta andando la stagione dei rossoneri, ma in quel momento, a fine agosto, non lo immaginava nessuno. Doppietta contro il Milan all’esordio è stato l’inizio di una retromarcia della critica con il conseguente coro di «io l’avevo detto». Certo, perché il senso di colpa fa mettere toppe che sono peggio dei buchi: a quasi 37 anni Toni viene raccontato come se fosse nel pieno della forza, della capacità, dell’energia. Non è così, ma ciò non gli impedisce di essere determinante. Perché se segni lo sarai sempre e se quando non segni fai in modo che segnino gli altri è uguale.
Eccolo, allora, Luca Toni di adesso. Uno che appunto pareva non iniziare mai. A 24 anni era ancora nel Treviso e lo prese il Vicenza per portarlo in Serie A. Giocatore lo era diventato a Modena, a due passi da casa, da Stella di Serramazzoni che s’aggrappa all’Appennino emiliano e guarda Maranello. Lì il campo di calcio si chiama Stadio della Bastiglia, che non c’entra con la Francia, ma con un monumento che apre la via verso il pallone. Luca è cresciuto lì e l’idea era quella di diventare un centrocampista: prima di adorare Van Basten, aveva una predilezione per Michel Platini. Non significa che fosse juventino, ma che amasse quel modo di giocare: voleva alzare la testa e fare l’artista. Centravanti lo è diventato per scelta dell’allenatore degli esordienti che a dodici anni lo spostò più avanti. Cominciava a essere una pertica e serviva in mezzo all’area avversaria: gli mettevano la palla sulla testa e lui decideva se tirare o appoggiare su qualche compagno. Gli altri lo guardavano e si divertivano, gli dicevano che lui poteva stare tranquillo: avrebbe avuto la vita facile, perché uno così, con quell’altezza e tutto sommato quei piedi, non era facile da trovare. Allora andò al Modena, a 18 anni: sette presenze, due gol in C1. L’anno dopo, 25 presenze, cinque gol. Lo mandarono via, lo prese l’Empoli. C’era Spalletti in panchina e il campionato era di Serie B: tre partite, un gol.
Il peggior anno della sua vita Luca Toni l’ha vissuto a una manciata di chilometri da dove sta vivendo il più bello: «In quel periodo facevo il militare a Napoli, stavo a Empoli solo il giovedì e poi la domenica». E nel momento peggiore, Marta. La ragazza che ha ballato sui tavoli dello spot Aperol, Luca Toni la incontrò in un locale di Firenze nel 1997. Da allora stanno insieme e tutti ripetono l’aneddoto delle prime uscite. Quello in cui lei pensava che lui fosse uno “sfigato”. Quella parola, “sfigato”, non la dice più, anzi ora sostiene di non averla mai detta: non si abbattono i miti e Luca per molti posti in cui ha giocato, questo è. Lo è per Palermo. Lo è per Firenze. La Fiorentina i suoi campioni li ha avuti: Hamrin, De Sisti, Antognoni, Baggio, Batistuta, Rui Costa, poi lui e ora Rossi. Il Palermo aveva lui, che fenomeno lo è diventato con quella maglia. Perché prima c’era stato il Vicenza e il Brescia, sempre in Serie A, sempre bei gol, sempre complimenti, sempre una forza enorme, ma mai con tanto impeto come con Palermo. E poi Luca avrebbe anche potuto abbandonare. Dall’Empoli passò al Fiorenzuola. Tornò in C1 e le cose andarono male: «È stato uno dei momenti più tristi della mia carriera. Quando sei giovane e non giochi, ti vengono in mente molte cose. Io pensai che forse avrei fatto meglio a cambiare vita. Non avrei lasciato il calcio, pensavo di andare a giocare vicino a casa mia, nei dilettanti».
Invece arrivò la Lodigiani. Lo portarono a Roma: 15 gol in 31 partite. Poi Treviso. Poi Vicenza. Poi Brescia. Poi Palermo. Poi Firenze e il rimpianto degli altri: «Io l’esperienza in Sicilia non la dimenticherò. Ho amato quella gente, la cordialità: c’è un senso dell’amicizia più forte che altrove, più forte che al nord». Il suo addio fu vissuto come uno psicodramma. Fischiato da quel momento in poi, cancellato momentaneamente dal cuore e dalle maglie che si vendevano al mercato: quelle avanzate con il 9 e il suo nome furono vendute il giorno del suo ritorno con la Fiorentina alla Favorita. Avevano tutte una croce rossa sul dorso e sotto la scritta: venduto. Era il rancore per un amico che se ne va. Lo sa anche lui che non s’è scordato la frase che i palermitani raccontano a chiunque arrivi in città: «Palermu è omu dabbeni, cu va va e cu veni veni». Disabituata a importare persone e troppo abituata a veder partire il meglio di sé, Palermo ha imparato ad accogliere. Ha capito che deve mostrarsi un po’ più attraente, che i suoi gioielli li deve tirare fuori tutti insieme. L’addio di Toni fu come la fuga di un pezzo di città. Si capisce, il perché.
Questione di personalità e di pallone. Perché piaceva il suo modo di fare e quello di giocare. Lui che sa difendere la palla con tutto il suo metro e novantaquattro, lui che sa muoversi, lui che sa usare le mani con gli avversari. Fa la parte del gigante, di quello che si deve abbassare per fare tutto quello che gli altri fanno saltando, come nello spot di Sky di cui fu protagonista e dove non poteva neppure alzarsi dal letto per quanto è grande. Succede anche sul campo, dove Luca finisce per piegarsi anche per colpire di testa. È una sua classica giocata: andare a raccogliere il pallone abbassando il collo e trovando il dopo con la testa sotto il livello delle spalle. Forte, Toni. Uno a qui aggrapparsi nei momenti difficili. E poi icona della pulizia: gentile ed educato, un bravo ragazzo, uno che non sa che cosa sia il doping, perché «faccio fatica anche a prendere un Aulin».
Firenze l’ha trasformato in un giocatore internazionale. Quarantasette gol in 67 partite. Mai niente di meglio per lui e per Firenze che dai tempi di Batistuta non aveva un centravanti che faceva tanti gol. La Germania fu un affare per giocatore e società, nonostante lo strano effetto di farlo considerare finito prima del tempo. La Roma ce l’ha riportato in Italia, a quel punto non s’è fermato più di un anno in alcun posto. Un anno al Genoa, un anno alla Juventus, un anno alla Fiorentina. Sempre con lo stesso retropensiero: questa dev’essere l’ultima stagione buona, no? Preso come un problem solver: l’attaccante di scorta che un certo pacchetto di gol te l’assicura, che un certo tipo di gioco di sponda e di peso te lo fa. Un panchinaro da far entrare quando c’è bisogno, coi galloni dell’ex grande. Verona l’ha riportato titolare, al centro del centro. Un gol dietro l’altro nessuno si chiede se questa sia l’ultima stagione: perché dev’essere così? Adesso non sembra più neanche quello alto. È un giocatore. Forte, completo, carico, sorridente, determinante. Ha voglia di giocare senza porsi il problema di come e quando finire. Sembra poco, è tutto.