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 2013  dicembre 24 Martedì calendario

INGORGO MEDITERRANEO

Sarà anche “nostrum”, ma di certo si sta rimpicciolendo come mai è avvenuto nella sua storia. L’assalto al Mar Mediterraneo e in particolare alle sue coste avviene quasi in silenzio, con un pezzo di mare che diventa prima terra e poi banchina. Mai come in questo momento, mentre la tempesta della crisi mette in ginocchio il mondo intero, l’economia del mare rialza la testa e si prepara a gestire la ripresa, quando navi sempre più grandi cariche di container entreranno dal canale di Suez e, prima di uscire da Gibilterra, lasceranno il loro carico in uno dei porti del Mediterraneo. Prova così a ritrovare la sua centralità, il vecchio Mediterraneo, per millenni culla di civiltà e centro assoluto del mondo prima che la grande stagione delle esplorazioni geografiche spostasse il baricentro dello sviluppo e della ricchezza nell’Atlantico.
E prova pure a invertire una rotta europea che fino a oggi ha visto il dominio assoluto del mare del Nord e dei grandi scali tedeschi, olandesi e belgi. Il merito è nella sua posizione geografica e nella capacità dei suoi porti di offrire servizi competivi ai signori del mare, i Paesi dell’Asia, che trovano nuovamente conveniente entrare nel Mediterraneo con navi sempre più grandi.
Chiaro che, in termini assoluti, la percentuale di riduzione del mare che unisce tre continenti e su cui gravita quasi mezzo miliardo di persone potrebbe non spaventare. Eppure, a sommare tutti i progetti di sviluppo di porti vecchi e nuovi si scopre che, nell’arco di pochi anni, il Mediterraneo diventerà più piccolo di oltre dodici milioni di metri quadrati.
Un metro quadrato sopra l’altro che non sarà più mare, ma diventerà terra. E questo, soltanto a scorrere l’elenco dei tredici più significativi progetti di sviluppo che riguardano l’Italia, la Francia, la Spagna, la Turchia, la Grecia, l’Egitto, il Marocco. Perché l’elenco completo porterebbe a una cifra più che doppia e che ormai dà l’impressione di essere fuori controllo.
«A dettare le regole del gioco è il gigantismo navale con portacontainer sempre più grandi che, scegliendo un porto ed escludendone un altro, saranno in grado di incidere sull’economia di un intero Paese – riflette Luigi Merlo, presidente dell’autorità portuale di Genova, primo scalo italiano per volume complessivo di merce movimentata – Quindi la corsa a offrire spazi adeguati a questi giganti del mare determina la corsa alla crescita, con il rischio che alla fine di questo folle inseguimento fra
porti ci si trovi con un’offerta di spazi di gran lunga superiore alla domanda di traffico. Tutti guardano all’Asia come il grande mercato di riferimento, che continua a produrre e sembra non conoscere crisi, ma alla fine i conti non potranno tornare per tutti».
Uno sbilanciamento pericoloso, non solo dal punto di vista economico, che ruota attorno a un concetto di fondo, tutto ancora da verificare: la crisi passerà, si spera il primo possibile, e a quel punto saranno vincenti soltanto quei porti in grado di accogliere navi capaci di trasportare fino a ventiduemila teus (il teu è l’unità di misura del container e corrisponde a un pezzo da venti piedi). Navi che nell’arco di un decennio, se non meno, hanno raddoppiato la loro capacità. Nessuno si è finora chiamato fuori dalla sfida, a cominciare proprio dall’Italia, con Genova che si prepara a dire addio al suo vecchio impianto degli accosti “a pettine” e a trasformare le sue banchine in un grande piazzale, ma anche con Vado Ligure, distante dalla Lanterna soltanto una manciata di miglia, che ha iniziato a costruire una grande piattaforma dedicata ai container. Ma l’elenco italiano è lungo e passa per Augusta, Napoli, Civitavecchia, Taranto, Venezia, Ravenna, Trieste e La Spezia. Milioni di metri quadrati strappati al mare, perché è soltanto così che oggi, dentro e fuori dal Mediterraneo, un porto cresce: si cinta il fazzoletto di mare destinato a diventare una banchina e lo si riempie di terra e di detriti, prima di coprirlo dall’asfalto.
«Servirebbe una programmazione europea – aggiunge Merlo – invece manca addirittura a livello nazionale. Da tempo chiediamo che l’approvazione dei singoli progetti, che è doverosa, venga accompagnata da un masterplan italiano. Finora, niente da fare. E in parallelo assistiamo alla crescita dei porti dell’altra sponda del Mediterraneo. Il risultato è che questo mare diventa sempre più un lago, con effetti non solo sull’economia dei Paesi interessati, ma anche sul microclima e sull’eco-sistema. La verità è che parliamo tanto di consumo del suolo e poco di consumo del mare».
Chiaro ormai che la sfida esce dai confini economici e si allarga agli aspetti sociali, culturali e ambientali. Perché se è vero che, da sempre, i porti sono in grado di anticipare i meccanismi dell’economia, perché sono globali ancor prima che si cominciasse a usare questa parola, è altrettanto vero che si rischia di rendere ingovernabile la situazione. A urlare di più è il mondo del mare, quello che non può far sentire la propria voce.
«Sulla carta ogni progetto di sviluppo di un porto dev’essere accompagnato da uno studio sull’impatto ambientale – commenta Claudia Gili, esperta di ambiente marino e direttore scientifico dell’Acquario di Genova – Ma è chiaro che non ci possiamo assolutamente accontentare di questo. La cementificazione è purtroppo una realtà anche in mare, anzi per certi aspetti può essere ancor più pericolosa. Bisogna vigilare con grande attenzione sulla costruzione di porti e di pontili. I Paesi all’avanguardia hanno da questo punto di vista procedure rigidissime».
Per la Gili, però, vigilare non basta più, tali e tanti sono i progetti di sviluppo. Non si tratta soltanto di costruire porti per i traffici mercantili. La corsa alla costruzione riguarda anche gli accosti per le navi da crociera, sempre più grandi e cariche di passeggeri. E poi accosti per le autostrade del mare, banchine per le navi specializzate nel trasporto energetico, pontili per la nautica da diporto.
«Ogni volta che si costruisce si depaupera la costa – spiega Claudia Gili – Ogni nuovo accosto prevede interventi di dragaggio molto significativi. E allora, sarebbe buona norma affiancare a ogni piano di sviluppo un progetto di ripopolamento per bilanciare l’intervento di costruzione».
Sarà opportuno muoversi per tempo, però, perché i progetti di crescita non aspettano. Un elemento positivo, questo, perché nelle macerie della crisi proprio la “blue economy”, l’economia generata dal mare (porti, armamento, cantieristica, nautica) mostra a differenti livelli buoni segnali di crescita e ulteriori opportunità di sviluppo. Lo dimostrano i dati del 2012, con i primi 14 porti del Mediterraneo che sono cresciuti, quasi tutti a doppia cifra. Merito delle nuovi navi che si fermano nei porti, lungo la rotta che dall’Asia entra nel canale di Suez e, dopo una serie di soste nel Mediterraneo, esce dallo stretto di Gibilterra. Così i 32 milioni di teus del 2012 potrebbero aumentare ancora, grazie soprattutto allo sviluppo poderoso dei porti della Turchia (Ambarli, Mersin), dell’Egitto (Canale di Suez) e del Marocco (Tangeri, che addirittura sta raddoppiando i suoi spazi operativi e si candida a diventare il nuovo gigante del Mediterraneo).
«Da questo punto di vista l’Italia non ha nulla da temere – chiude il presidente del porto di Genova Merlo – I porti liguri, ma anche scali come Gioia Tauro, Napoli e quelli dell’Adriatico, solo per fare alcuni nomi, garantiscono una capacità di competere che è quanto meno uguale a quella dei concorrenti. Ma non è soltanto un discorso di numeri, quanto di filosofia di sviluppo. Noi, ad esempio, stiamo definendo un nuovo piano regolatore portuale che punta sulle energie alternative e si affida a personaggi come l’architetto Renzo Piano. Cerchiamo insomma di fare meno riempimenti e di puntare di più sulla ricerca tecnologica e l’innovazione, anche per la tutela del mare. È questo l’unico modello che può essere vincente per il futuro».