Gianfranco Morra, ItaliaOggi 24/12/2013, 24 dicembre 2013
FRANCESCO INVENTORE DEL PRESEPIO
L’usanza dell’albero di Natale è nordica e solo nell’Ottocento è penetrata nell’Europa centromeridionale. Mentre tutto nostro è il presepio, inventato da S. Francesco a Greccio nel Natale del 1.223. Una usanza oggi rafforzata dal nome assunto dal nuovo papa. Due usanze, del resto, che non si escludono, le troviamo insieme anche a S. Pietro. Mentre, in famiglia, spolveriamo e sistemiamo le figurine, può esserci utile riflettere su chi era veramente l’inventore del presepio. Anche per difenderci dalla mistificazione del suo messaggio, che s’era affievolita con i papi Wojtyla e Ratzinger, mentre oggi è tornata di moda. Come nel periodo postconciliare, quando Francesco era divenuto tutto.
Pacifista? No, era solo pacifico. La guerra va evitata, ma non può essere esclusa, come disse al Sultano: «I cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo». Non era andato da lui per dialogare, ma per convertirlo. Il suo modello era la cavalleria e chiamava se stesso «miles Christi», soldato di Cristo. Le «marce della pace», grande industria culturale, soprattutto ad Assisi, non le avrebbe mai fatte: la vera pace è quella interiore e la stessa guerra è lecita, quando è «giusta». Come le crociate, che definiva «sante imprese».
Vegetariano? Per niente. Francesco, che viveva spesso nel digiuno e nella macerazione, non disprezzava i buoni cibi. Predicava agli uccelli, ma, invitato a pranzo da un cavaliere, gradì moltissimo dei tordi allo spiedo. Alcuni suoi seguaci erano vegetariani, ma li rimproverò duramente: «Dovete mangiare tutto quello che vi danno». Il Santo amava anche i dolcetti: a una sua amica, la nobile romana Giacomina dei Settesoli, che corre da lui perché sta morendo, chiede di portargli la tonaca per il funerale, ma anche quei «mostaccioli alla mandorla e miele», che solo lei sapeva fare.
Queste e altre distorsioni grossolane non tengono conto dei fatti storici e degli scritti del Santo, ma cercano in lui un sostenitore di tendenze che, in quel tredicesimo secolo, non potevano ancora esserci. Non avviene a caso: fare di Francesco un contemporaneo, attribuirgli le tendenze del conformismo attuale, significa avere consenso e incrementare i viaggi dei pellegrini. Anche in tv hanno avuto grande successo le melense fiction del Santo «buonista» e sentimentale. Quando invece non era sempre serafico e i suoi frati spesso li redarguiva malamente.
Oggi la falsificazione punta soprattutto sulla povertà, con una caricatura che ne fa un accusatore dei ricchi e un partigiano dei poveri. A partire da una memoria giusta. «Poverello», venne chiamato, perché aveva celebrato le nozze con Madonna Povertà, che chiamava «la sposa più nobile, bella e ricca». Ma non era un povero che voleva farsi ricco: figlio di un ricco mercante, si fece povero per divenire ricchissimo («ditissimus pauper» lo chiama il suo biografo Celano). La povertà, per Francesco, non è un fine, ma un mezzo. Essa consente di staccarsi dalla ricchezza finta per raggiungere quella vera: «la povertà (spiegò S. Francesco) è la via speciale della salvezza, alimento della umiltà e radice della perfezione».
Francesco voleva essere un secondo Cristo («alter Christus») anche nella povertà. Cristo non ha esaltato i poveri sociologici, la classe misera, ma i poveri «nello spirito», con una povertà che non è obbligatoria, ma liberamente scelta. Così pure il suo «guai ai ricchi» (Lc 6, 24) non nasce da motivi sociali, ma dal fatto che la loro ricchezza li tiene lontani dal «Regno dei cieli». Confondere la povertà evangelica con la lotta di classe o con le rivendicazioni sindacali è come sostituire la mano aperta di san Francesco con il pugno chiuso di Lenin. Come faceva la sudamericana «teologia della liberazione», condannata da Ratzinger.
Non è un caso che Cristo fu del tutto estraneo ad ogni rivendicazione sociale e probabilmente venne tradito da Giuda proprio perché non voleva fare il «rivoluzionario» (zelota). Non era amico solo dei poveri: chiede a Zaccheo, esattore delle imposte, di ospitarlo; il ricco Giuseppe di Arimatea si assume le spese della sepoltura; si reca nella casa di un ufficiale dell’esercito romano e gli guarisce il servo. Il Vangelo non è solo dei poveri, ma di tutti. La frase «Chiesa dei poveri» è certo valida quando si riferisce allo «spirito» dei cristiani (Mt 5, 3) e anche quando suggerisce di aiutarli, ma è riduttiva se letta politicamente, perché la Chiesa è tanto dei ricchi quanto dei poveri. Le prime piccole comunità cristiane erano «comuniste», nel senso che mettevano in comune i beni: ma non era un obbligo, era solo un consiglio.
Tutti gli storici più acuti di S. Francesco, in gran parte laici, da Joergensen a Sabatier, da Salvatorelli a Manselli e Le Goff, hanno mostrato l’errore di leggere la povertà francescana con categorie attuali. Basti l’osservazione di Chiara Frugoni: «Francesco non offre una risposta politica alle ingiustizie sociali, non medita lotte e ribellioni. Risponde con la fede» (Vita di Francesco d’Assisi, Einaudi). La povertà francescana non è uno status, ma uno stile di vita. Il «povero» francescano non va confuso col «non ricco», insoddisfatto e risentito, che aspira ad avere quelle ricchezze che condanna negli altri solo perché ancora non le possiede.
É il «giullare di Dio» così distaccato dalle ricchezze, che non le ama, né le odia. Gli sono indifferenti, non le ha solo perché ha voluto privarsene. La vera povertà è quella accompagnata da letizia. Chi ha capito sino in fondo la povertà francescana è stato Rilke. Nella sua raccolta lirica più mistica, il «Libro d’ore», lamenta la miseria dei nostri tempi: «Oggi il tempo dei ricchi è tramontato; / e niuno più lo riconduce al mondo. / Dacci, Signore, che ritorni almeno / ad Esser Povertà – la Povertà. / Ché più non sono poveri davvero, / sovra la terra, i poveri dell’oggi. / Sono i non ricchi. Senza volontà / e senza mondo». La classe operaia non va più in paradiso.
Non capisce affatto «Madonna Povertà» chi ci vede un messaggio sociale o politico. O, peggio ancora, se ne serve astutamente come di un argomento per ottenere consenso e successo nei media. Dimenticando, anche, che la vittoria contro la miseria è avvenuta solo con le attività produttrici di ricchezze, tipiche dell’occidente industrializzato e produttivo. Con tante conseguenze negative, ma anche con il raggiungimento di un benessere diffuso a gradi diversi in tutte le classi sociali. Essa va dunque continuata entro quei limiti sostenibili che possono dare il massimo di utilità e il minimo di danni. Non serve il pauperismo. E non lo si trova in Francesco, che povero fu certo, ma non pauperista.