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 2013  dicembre 24 Martedì calendario

KALASHNIKOV, UN NOME NELLA STORIA DIVENUTO ICONA DI TERRORE E RIVOLTA

Già il suo nome suonava come una raffica: Kalàshnikov. Per quasi 70 anni quel fucile automatico con l’inconfondibile caricatore a banana inventato da lui ha intonato milioni di volte il canto della morte per chi l’ha ascoltato: non c’è arma da fuoco individuale che abbia ucciso più dell’AK47 progettato da un contadino degli Urali divenuto meccanico e scomparso ieri a 94 anni.
Era divenuta un’icona più celebre della Coca Cola o delle orecchie di Topolino, dal suono diverso da ogni altro fucile, dal nome che è risuonato come un grido di terrore e di rivolta in ogni continente. Aveva una voce tagliente, una tosse secca e insistente. Chi l’ha ascoltato cantare anche una sola volta, non l’ha più dimenticato, se è sopravvissuto.
Come la daga delle legioni romane che costruirono un impero, come la scimitarra che diffuse nel mondo la parola del Profeta, come la carabina Winchester che conquistò un continente, così l’“Avtomat Kalashnikova”, il fucile automatico inventato da Mikhail Timofeyevich Kalashnikov è divenuto il logo di un tempo della storia, una storia che esso ha cambito. Con 150 milioni di esemplari, fabbricati in Unione Sovietica e riprodotti abusivamente da fabbri di paese e officine in ogni nazione dove ci fosse un mercato, l’AK 47 ha verosimilmente fatto più vittime, una alla volta, delle bombe atomiche sganciate dagli americani sul Giappone, ma Mikhail Kalashnkov è morto senza rimorsi. «Il mio fucile non uccide nessuno — disse in una intervista nel 1997, quando finalmente la nuova Russia decise di brevettare quell’arma — uccidono i politicanti che non riescono ad accordarsi e che sfruttano la gente».
Un alibi che ricorda pericolosamente il mantra della lobby americana delle armi — «non sono le pistole che uccidono, ma chi le impugna» — ma che il piccolo meccanico siberiano con la seconda media, reclutato fra i carristi nella guerra contro i nazisti perché troppo basso di statura per la fanteria, ma perfetto per le anguste torrette de T 34 staliniani, ripeteva con la convinzione di chi era rimasto, fino all’ultimo giorno, il patriota comunista.
Kalashnikov, con il petto corazzato da ogni possibile decorazione compresa nell’immenso catalogo della chincaglieria sovietica, promosso generale senza avere mai comandato neppure una pattuglia, insignito di lauree ad honorem in ingegneria meccanica senza avere mai frequentato un’aula universitaria, disse di avere «creato un’arma per il popolo». Semplice, maneggevole, relativamente leggera a poco più di tre chili, «perché ogni contadino e operaio potessero usarla senza addestramento».
Fu l’arma di chi non aveva armi. La Volkswagen degli eserciti popolari e della bande irregolari. La usarono e la usano non necessariamente quegli operai sfruttati e quei contadini oppressi ai quali lui pensava quando sottopose il proprio disegno per una nuova carabina al direttorato per le armi leggere dell’Armata Rossa. La avrebbero imbracciata, e purtroppo usata, i bambini guerriglieri in Africa, i terroristi di ogni causa, fede e colore, i ribelli con legittime aspirazioni ed è, insieme con la scimitarra araba, l’unica arma da fuoco a comparire, incrociata con una zappa, su una bandiera nazionale, quella del Mozambico.
Non era un’arma di precisione, come non sono mai le automatiche, ma di terrore spruzzato a raffica contro il nemico. Non ci sarebbe stata la rivoluzione cubana né la vittoria del Vietnam del Nord e dei Vietcong nel Sud senza il Kalashnikov. L’aneddoto, forse apocrifo, che l’inventore amava ripetere più spesso, e con più orgoglio, era la testimonianza di soldati Usa che nelle giungle del Sud est asiatico abbandonavano le loro delicate carabine M16 preferendo gli AK47 presi ai nemici caduti catturati. «Il mio fucile non si inceppava mai».
Fu, per eccellenza e senza concorrenti, l’arma di sinistra. La si poteva trovare, nell’immenso bazar globale delle armi, per poco più di 100 dollari americani, se usata, in mercatini pakistani o yemeniti o congolesi, anche per meno. Chi l’avesse progettata e costruita in altri paesi sarebbe divenuto miliardario, come i produttori di armi negli Usa o in Europa, ma non “Mishka”, l’orsetto del mitragliatore. Fu retribuito con lo stipendio di un tecnico qualsiasi, via via aumentato con le promozioni e le onorificenze, ma sempre da impiegato statale e né lui, né il governo, né l’Armata Rossa pensarono mai di brevettarla. Robaccia da capitalisti, quel brevetto.
Soltanto nel 1997, nella nuova Russia, l’AK47 e le sue varianti successive furono brevettate e il figlio maggiore di Mikhail “Mishka” Kalashnikov costituì un azienda privata per costruirla e commercializzarla. Trascinava il padre con sé in giro per il mondo, nei congressi e nelle esposizioni degli armaioli, dove il vecchio veniva esposto e venerato come una reliquia. Se la morte a spalla fosse una religione, lui ne sarebbe stato l’evangelista.
A Izhevsk, la città nella regione dell’Udmurtia, negli Urali, dove viveva ed è morto, il Partito gli aveva eretto un monumento di marmo nero, ancora da vivo, con un busto realisticamente corretto, compresa la capigliatura ancora folta. Quel monumento è diventato un luogo di pellegrinaggio e di devozione per le coppie di nuovi sposi, che dopo la cerimonia in municipio vanno a deporre fiori e a chiedere la sua benedizione, invocandone il nome. Spara per noi, Kalashnikov.