Marco Fortis, Il Sole 24 Ore 24/12/2013, 24 dicembre 2013
IL PRIMATO INDUSTRIALE ITALIANO
Nel 2013 il surplus manifatturiero italiano con l’estero sfiorerà i 110 miliardi di euro, un successo conseguito da tutto il sistema produttivo (dalla meccanica ai mezzi di trasporto, dalla moda all’alimentare, dai mobili alle ceramiche, dagli articoli in plastica a nicchie avanzate di chimica e farmaceutica) e non da isolate o piccole porzioni del made in Italy, come talvolta si sente argomentare.
Una cifra che è un record indipendentemente dalla caduta delle importazioni e che dimostra come l’industria italiana abbia in realtà già realizzato gran parte di quello "sforzo di ristrutturazione, di innovazione e di modernizzazione" di cui ha ripetutamente parlato in questi giorni il ministro dell’Economia Saccomanni ma che molti economisti, uffici studi ed opinionisti in Italia e all’estero non hanno ancora focalizzato sui loro radar, sintonizzati su vecchie e superate teorie "decliniste".
D’altronde, non si può nemmeno pensare che le imprese italiane debbano arrivare ad esportare tutto quello che producono, come pretenderebbero alcuni. Anche perché in tal caso vorrebbe dire che tutto quello che consumano le nostre famiglie, ancorché in forte calo, sarebbe importato dall’estero. Una vera assurdità. Né si può trascurare l’importanza del mercato domestico anche per chi esporta molto, cioè, ad esempio, per quelle imprese che vendono all’estero fino al 70-80% del loro fatturato. Infatti, anche per chi esporta così tanto l’Italia resta comunque spesso il primo mercato. E se il tuo primo mercato improvvisamente viene a mancare a causa di politiche economiche troppo "rigoriste", non ci sono incrementi a breve termine sugli altri mercati che possono bastare per compensare le perdite.
I dati parlano chiaro. Rispetto al gennaio 2008, gli indici destagionalizzati dell’Eurostat ci dicono che il fatturato dell’industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco.
All’opposto, la dinamica del fatturato estero manifatturiero italiano durante questa crisi è stata del tutto simile a quella della Germania, riportandosi sopra i livelli pre-crisi. Ciò nonostante, arrivano quotidianamente dal commissario europeo alle finanze Rehn e dal presidente della Bundesbank Weidemann continui richiami all’Italia perché la nostra presunta mancanza di competitività sui mercati internazionali non farebbe crescere il nostro PIL.
Mentre è del tutto evidente che le cause della crisi attuale dell’economia italiana vanno ricercate non nell’export ma nelle ricette sbagliate, o quantomeno sproporzionate, che ci sono state imposte dall’UE e che hanno falcidiato le capacità di spesa e di consumo degli italiani. Non si poteva, infatti, applicare ad un importante Paese produttore-esportatore come l’Italia la stessa medicina di brutale austerità prescritta a Paesi non produttori e fondamentalmente importatori come Grecia o Spagna. Queste economie facendo austerità hanno soprattutto ridotto l’import, mentre l’Italia ha distrutto soprattutto capacità produttiva e con essa posti di lavoro pregiati nella manifattura.
Il nostro commercio estero non è competitivo, come sostengono Rehn e Weidemann? E allora perché siamo uno dei soli 5 Paesi del G-20 (assieme a Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere una bilancia commerciale manifatturiera strutturalmente in surplus (nel 2012 secondo il WTO in attivo per 113 miliardi di dollari)? L’Italia non avrebbe fatto abbastanza sacrifici e riforme? Ma il deficit-Pil sotto il 3% per tre anni consecutivi (2012-14) dove lo mettiamo? E la più bassa crescita percentuale in termini monetari del debito pubblico italiano in Europa dopo quello della Svezia dal 2008 ad oggi? E le varie riforme delle pensioni che l’Italia ha effettuato? Grazie alle quali - ma ciò Rehn non lo ripete tutti i giorni - la stessa Commissione Europea riconosce che l’Italia presenta nell’UE, secondo l’indice S2, il più basso profilo di rischio finanziario sovrano di medio-lungo termine? (Public Finance in Emu, 2013, p.42).
La riprova della vivacità del sistema manifatturiero italiano, che sfida eroicamente tutti i giorni i vincoli di un sistema-Paese inefficiente ed ipertrofico nella sua burocrazia (qui sì che vanno fatte subito le riforme!), viene dall’ultimo aggiornamento del Trade Performance Index appena diffuso dall’International Trade Centre (Itc), braccio operativo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e dell’Unctad. Nel 2012 non soltanto l’Italia ha mantenuto, su 14 macro-settori del commercio mondiale presi in esame dall’Itc, i tre primi posti, i tre secondi posti e il sesto posto nelle 14 graduatorie di competitività che già deteneva nel 2011, ma ha anche conquistato un nuovo terzo posto.
Il nostro Paese, infatti, si è confermato il più competitivo al mondo nei tessili, nell’abbigliamento e nei prodotti in cuoio; ha mantenuto i secondi posti che aveva nella automazione-meccanica, nei manufatti di base (metalli, ceramiche, ecc.) e nei manufatti diversi (articoli in plastica, design-arredo, mobile, prodotti per l’edilizia e primato assoluto nell’occhialeria), nonché il sesto posto negli alimentari trasformati. In più, esauritosi l’abnorme import di celle fotovoltaiche sospinto dagli incentivi governativi avvenuto durante il 2010-11, l’Italia è tornata a brillare anche nel settore dei materiali elettrici ed elettronici piazzandosi nel 2012 al terzo posto mondiale per competitività e riportandosi in forte surplus con l’estero anche in questo settore.
Complessivamente l’Italia nel 2012 è risultata seconda nelle classifiche settoriali di competitività del commercio mondiale solo alla Germania. I citati 8 macro-settori in cui il nostro Paese risulta ai vertici della competitività a livello internazionale hanno dato luogo lo scorso anno ad un surplus con l’estero di 103 miliardi di dollari, più della metà dei quali sono venuti dalla sola meccanica non elettronica, settore in cui siamo anche secondi per ricerca e sviluppo nell’UE dietro ai tedeschi, con oltre 1 miliardo di euro di investimenti (pur essendo largamente sottostimata dalle statistiche ufficiali molta innovazione fatta dalle nostre Pmi).
In definitiva, dagli indicatori dell’International Trade Centre emerge in modo chiaro che non è di certo l’industria italiana a non essersi ristrutturata ed ammodernata in questi anni di crisi, visti i successi da essa ottenuti sui mercati esteri. Viceversa, sono la politica e le pubbliche amministrazioni a non essersi ristrutturate ed ammodernate affatto. Ed i loro debiti e costi pesano sempre di più, attraverso una tassazione ormai ai limiti della sopportazione, su un mercato domestico andato completamente in tilt.
Purtroppo la storia degli ultimi trenta anni di tutti i Paesi avanzati e maturi ci dice che se il tuo mercato nazionale non "tira", l’export da solo non basta per far crescere decentemente il Pil. Per capirci, l’export non è sufficiente oggi nemmeno alla super-competitiva Germania, il cui PIL aumenta ormai da tre anni solo grazie alla spinta della domanda interna. Dunque per l’Italia c’è un unico modo per tornare a crescere: riformare e sburocratizzare lo Stato.