Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 24/12/2013, 24 dicembre 2013
UN SECOLO FA IN AMERICA QUELLA VIGILIA DI SANGUE NEI LOCALI DELL’ITALIAN HALL
S i erano messe un fiocco tra i capelli e il vestitino più bello, Teresa Rinaldi e Jenny Giacometto e le altre bambine invitate alla festa di Natale all’Italian Hall. E i ragazzini, come usava allora, avevano indossato la giacchettina e qualcuno era stato aiutato dalla mamma ad allacciarsi perfino una piccola cravatta. Avevano atteso con impazienza, quella festa. Perché nelle case, da mesi, c’era aria pesante. E nei piatti, quando era ora di mangiare, la carne era sempre più rara.
Calumet, un paese del Michigan sulla penisola di Keweenaw che si allunga nel Lake Superior verso il Canada e oggi è ridotto a meno di un migliaio di abitanti, era cento anni fa uno dei centri mondiali del rame. E in una manciata di anni e aveva attirato un sacco di immigrati. Slavi, finlandesi, italiani.
Erano poveretti arrivati lassù dopo viaggi interminabili inseguendo il sogno narrato, ad esempio, da Samuele Battista Turri che nelle sue sgrammaticate ma vivissime memorie scrisse: «Nel 1912 volli raggiungere anch’io i compagni nell’America del Nord dove il compenso era pari a tre dollari — 15 lire — per nove ore di lavoro: la fortuna era imminente». Un’illusione svanita davanti al primo menu di una trattoria: «Conoscevamo una sola parola, “bistek”, e l’indicammo col dito. Fummo serviti, come tutti, e anche il conto avemmo, come tutti: un dollaro e cinquanta pari a 7 lire e mezzo (…) Sospettammo che la fortuna non fosse così vicina…». Erano pagati una miseria e non avevano tutela sindacale, i minatori della penisola di Keweenaw. E quando i proprietari della «Calumet e Hecla Mining Company» introdussero un nuovo trapano che poteva essere manovrato da un solo uomo anziché due, videro affacciarsi lo spettro di licenziamenti di massa. Fu così che il 23 luglio 1913 proclamarono uno sciopero. Decisi a ottenere il riconoscimento dei sindacati, tre dollari di paga al giorno e una riduzione da dieci a otto ore al giorno di lavoro.
La reazione della Società mineraria fu durissima. Rastrellò un po’ di crumiri, portò da fuori migliaia di disperati disposti a tutto, minacciò gli scioperanti di buttarli fuori dalle loro case, arruolò i vigilantes della compagnia di sicurezza Waddell-Mahon di New York. Gente col pelo sullo stomaco. Pronta a sparare per difendere la produzione di rame.
Andò avanti per mesi, lo sciopero. E via via che l’autunno si fece più rigido lasciando il posto all’inverno, un inverno gelido e gonfio di neve, la vita dei minatori diventò sempre più difficile. Quando arrivò Natale erano stremati. Non vollero, però, rinunciare a organizzare, nel pomeriggio della vigilia, una festa per i loro bambini. Appuntamento all’auditorium della Società di Mutua Beneficenza Italiana, a tutti nota come l’«Italian Hall», sul cui pennone svettavano il tricolore e la bandiera americana.
A metà pomeriggio, quando già era buio pesto, i bambini erano felici. Avrebbe cantato un quarto di secolo dopo il grande folk singer Woody Guthrie in «1913 Massacre», più avanti ripresa anche da Bob Dylan, che i piccoli cantavano e giocavano intorno all’albero natalizio e finalmente anche gli adulti trovavano un po’ di tregua dopo mesi di tensione, di scontri con i vigilantes e di fame: «Si parla e si ride e si sentono canzoni nell’aria / e lo spirito del Natale è dappertutto / Prima che possiate saperlo siete già amici con tutti noi / e state ballando tutt’intorno nella sala». Finché, come ricorda la canzone, la festa sfocia in una tragedia: «Una ragazzina siede accanto alle luci dell’albero di Natale / a suonare il piano, perciò state in silenzio / Ad ascoltare tutta questa gioia non vi accorgete / che gli scagnozzi del boss del rame si stanno muovendo di fuori / Gli scagnozzi del boss del rame ficcarono le teste nella porta / ed uno di loro urlò: “C’è un incendio!” / Una donna gridò: “Non c’è niente del genere! / Continuate la festa, non c’è niente del genere!”».
I tentativi di placare il panico del fuoco sono inutili. Solo due anni prima, i racconti dell’incendio del 25 marzo 1911 alla camiceria della Triangle Shirtwaist Company che ha ucciso 146 operai e soprattutto operaie, in larga parte italiane, hanno colpito tutti gli americani. Le cronache sul «Daily» della catastrofe («Qualcuno pensò di tendere delle reti per raccogliere i corpi che cadevano dall’alto ma queste furono subito strappate dalla violenza di questa macabra grandinata...») si sono conficcate negli incubi collettivi. Il terrore si impossessa di tutti. Mamme, papà, bambini, atterriti all’idea che il fuoco divampi e possa ingoiare tutti, si precipitano giù per le scale verso l’uscita. Qualcuno cade. È travolto. E i primi corpi vengono schiacciati dai secondi e i secondi dai terzi. Le porte sono chiuse. Forse perché si aprivano solo dall’interno, forse perché erano sbarrate da fuori: «Un uomo afferrò sua figlia e la portò giù / ma gli scagnozzi avevano bloccato le porte / ed egli non potè uscire / E poi ne seguirono altri, un centinaio ed oltre / Ma la maggioranza restò sul pavimento…». Quando finalmente le porte furono spalancate e la gente pazza d’angoscia fu fuori e si placò, cominciò la conta dei morti. Una conta interminabile, con i genitori che risalivano disperati su per le scale urlando i nomi del figlioletto o della figlioletta e cercando i loro corpi tra i cadaveri. Settantatré furono, le vittime. In larghissima parte bambini.
«Non ho mai visto una cosa così terribile», proseguiva Woody Guthrie, «Portammo i nostri bimbi su accanto al loro albero di Natale / Quei poco di buono di fuori ancora ridevano…». Fu una notte di strazio, quella notte del Natale 1913 a Calumet. Adagiarono quei bambini e quelle bambine su un tavolato: la loro foto avrebbe colpito gli americani con una frustata in faccia. Un paio di giorni dopo, una folla immensa accompagnava i morti al cimitero. Le bare scure degli adulti nei carri funebri trainati dai cavalli, quelle piccole e bianche portate a mano dai padri e dai nonni.
L’Italian Hall è stata abbattuta trent’anni fa. Si era aperta una crepa nel muro. E una colletta lanciata per salvare quel monumento al dolore di tanti emigrati, nel silenzio italiano, era fallita. Restano soltanto vecchie fotografie ingiallite…