Rocco Molteni, La Stampa 24/12/2013, 24 dicembre 2013
CON NOCCIOLE E GAMBERI IL NATALE DEL CAMBIO
Uno dei riti (e dei miti) di Natale dei torinesi è da tempo immemorabile il pranzo di Natale al ristorante del Cambio. Ma adesso lo storico locale dove Cavour andava a mangiare la finanziera è chiuso per ristrutturazione e aprirà nel 2014. Alla guida ci sarà Matteo Baronetto, fino a poche settimane fa braccio destro di Carlo Cracco a Milano. Siamo riusciti ad entrare nel locale che è ancora un cantiere e a farci raccontare dal giovane chef, che ritorna per certi versi a casa (è nato a Giaveno, in provincia di Torino, 36 anni fa), cosa avrebbe cucinato per Natale se il Cambio avesse già riaperto i battenti: «Un primo piatto – racconta – potrebbe essere la testina di vitello con gli scampi. Mi piace l’incontro tra le due consistenze. La testina è nobile, nobili sono gli scampi, nell’incontro i sapori si esaltano. E il piatto mi sembra adatto per un’occasione importante. Poi potrei proporre una zuppa di nocciole con i gamberi. Le nocciole sono un classico piemontese. Devono cuocere per almeno quattro ore, così rilasciano gli oli e assumono la consistenza quasi dei ceci. Una zuppa calda ideale per una Natale con la neve». Come finirebbe questo pranzo di Natale? «Con una crema al mascarpone con i cachi e gli amaretti: ho imparato a lavorare il mascarpone da Peck, gli amaretti sono tipici del Piemonte, i cachi un frutto che amo».
Come è nata la passione di Baronetto per la cucina? «Avevo 14 anni. Mio padre non voleva comprarmi il motorino. Così decisi di andare d’estate a lavorare come cameriere in una pizzeria. Stavo ai tavoli, ma un giorno il cuoco si ruppe una gamba e la padrona mi chiese di darle una mano. Lì è nata la mia passione per la cucina». Di cucine, dopo quella pizzeria di Giaveno, Baronetto ne ha viste tante: «Mio padre, geometra, voleva che facessi il ragioniere. Volevo accontentarlo, ma poi mi sono iscritto all’alberghiero. La scuola mi sembrava però solo teoria, così la sera e nei weekend andavo a lavorare alla Betulla, un ristorante allora importante dalle mie parti. I compagni mi prendevano per pazzo, perché rinunciavo al tempo libero».
Poi un giorno un professore gli suggerisce di fare uno stage da Gualtiero Marchesi, che da poco aveva aperto l’Albereta ad Erbusco: «Telefonai, ma il contatto del mio professore si occupava della sala e mi disse “parla con il capocucina”. Me lo passò: era Carlo Cracco». Inizia allora il lungo sodalizio, che porta Baronetto al seguito di Cracco prima alle Clivie di Piobesi d’Alba e poi a Milano, nel locale che il futuro implacabile giudice di Masterchef apre in tandem con la famiglia Stoppani, proprietaria della gastronomia Peck: «Gli Stoppani mi colpirono: avevano un piccolo impero, ma li vedevi in cucina a tagliare le carote per l’insalata russa, che ho imparato da loro a fare alla perfezione». E proprio un’insalata russa caramellata («ma i milanesi non l’hanno capita subito») è uno dei primi piatti che ricorda: «Dopo un po’ Cracco si mise in proprio e divenni il suo sous-chef. Firmavo i menu e non so quanti altri grandi chef al mondo avrebbero permesso una cosa simile».
Tra antico e moderno, tra passato e contemporaneità, si gioca ora la sua sfida al Cambio. Il locale è amato ancor oggi dai torinesi che l’hanno sempre sentito come un pezzo della propria identità non solo gastronomica. «Avrò – dice lo chef - molto rispetto per la storia del luogo e per chi mi ha preceduto nelle sue cucine. Ma ho accettato la proposta di Michele Denegri, il nuovo proprietario, perché condivido i suoi progetti di rilancio: il Cambio per la sua storia e identità merita di diventare uno dei ristoranti importanti sulla scena non solo italiana».
Che cosa ha in mente? «Premesso che non credo nella mitologia dello chef che al mattino va al mercato a fare la spesa, perché o è un robot che dorme tre ore per notte o è uno che non sa scegliere i fornitori, posso dire alcune della materie prime su cui mi piace lavorare: l’uovo, le frattaglie, visto che siamo nel regno della finanziera, il midollo». Non mancheranno accostamenti come quelli che l’hanno reso famoso a Milano, ad esempio il rognone con i ricci di mare: «Figuriamoci se non metto in carta un piatto del genere. Amo i ricci e ho passato settimane da Marchesi a non far altro che aprirli». Ma cosa si aspetta dai torinesi? «Da un lato che mi aiutino a lavorare bene, anche con giuste critiche, dall’altro che si alzino soddisfatti dalla cucina del Cambio, al punto da aver voglia di tornarci per l’emozione di quello che hanno mangiato».