Anna Zafesova, La Stampa 24/12/2013, 24 dicembre 2013
ADDIO A KALASHNIKOV
Era entrato nella storia almeno mezzo secolo prima di morire. Mikhail Timofeevic Kalashnikov è spirato ieri, a 94 anni, nell’ospedale cardiologico di Ufa, la capitale dell’Udmurtia dove da decenni si progetta e si costruisce il mitra più famoso del mondo.
Le cause ufficiali della morte non sono state ancora rese note, ma a quell’età e dopo tre ricoveri in terapia intensiva nell’ultimo anno, l’ultimo dopo i festeggiamenti del compleanno a settembre, difficile parlare di un giallo.
Il funerale sarà solenne: l’ingegnere autodidatta aveva più medaglie, titoli e onorificenze di quante riuscivano a stare sul petto della sua uniforme da generale. Nel mondo attualmente circolano quasi 200 milioni di esemplari del suo Ak-47, di cui 75 «ufficiali» prodotti in una trentina di Paesi su licenza, e il resto falsi come le borse di Louis Vuitton, creati da artigiani nelle montagne afghane, o in rudimentali fabbriche disseminate dall’Africa alla giungla latinoamericana.
Penultimo di 18 figli di una famiglia contadina mandata al confino da Stalin, Kalashnikov è uno dei russi più famosi della storia, un nome che è diventato un brand, un simbolo della Russia che non richiede traduzione, come sputnik, perestroika e vodka. Ha cominciato a progettare il suo mitra mentre recuperava in ospedale dopo essere stato ferito in guerra, e l’odio verso i nazisti che falciavano i suoi compagni nelle trincee lo ha animato per tutta la vita: «Non fosse stato per loro, avrei inventato un tagliaerba», diceva.
Ha taciuto per anni il suo grande segreto, l’essere fuggito dal confino grazie ai timbri falsificati sui documenti, il primo guizzo di un genio che avrebbe poi avuto fama planetaria. Grazie alla sua arma perfetta – leggera, rapida, precisa, capace di sparare in qualunque condizione climatica – avrebbe potuto diventare milionario, ma non l’ha mai brevettata. Nonostante questo, è rimasto tesserato del Pc fino alla morte, grato al sistema che aveva scommesso su un sergente sconosciuto che aveva sfidato i migliori ingegneri dell’epoca nel concorso che nel 1947 ha dato all’Armata Rossa quella che sarebbe diventata la sua arma-simbolo.
Maneggiare il kalashnikov faceva parte del corso scolastico obbligatorio per i bambini sovietici, ma il suo creatore aveva passato una vita lontano dai riflettori. Scriveva poesie, andava a pesca, riparava elettrodomestici e lavandini nella casetta dove abitava con l’adorata moglie e i quattro figli. Solo negli ultimi anni l’uomo che era un segreto di Stato ambulante aveva viaggiato all’estero, quasi stupito di un’accoglienza da star. Non si sa se era a conoscenza del suo ultimo successo: dopo averlo dismesso a favore di nuovi modelli, l’esercito russo ha annunciato che l’ultimo nato della famiglia kalashnikov sarebbe tornato negli arsenali russi. Provava un discreto orgoglio a vedere la sua creatura utilizzata da una cinquantina di eserciti, ma anche da gangster, soldati-bambino, guerriglieri marxisti e terroristi islamici: «Non sono stupidi, capiscono quando un’arma è affidabile», diceva.