Egle Santolini, La Stampa 23/12/2013, 23 dicembre 2013
POLLINI: QUELLO STRAORDINARIO BEETHOVEN IN FABBRICA
C’è una domanda a cui Maurizio Pollini non risponderà mai: «Che fa quando non gira il mondo a suonare?». Gli strapperete solo un sorridente «sto molto a Milano». Ci riproviamo: «Dicono che sia un bravo scacchista». Niente da fare: «È tanto che non gioco più». E allora partiamo dal suo disco più recente: quattro sonate di Beethoven ancora dai sentori settecenteschi, l’opera 7, le due dell’opera 14 e la 22.
Com’è cambiata nel tempo la sua lettura di un autore così cruciale?
«Di certo una grande evoluzione c’è stata, ma è difficile spiegare in cosa consista. Innanzitutto, per farsi un’idea dell’universo beethoveniano bisogna considerare non solo le sue composizioni per piano, ma anche le sinfonie, i quartetti, le opere che non posso frequentare direttamente. Con lo studio l’idea si precisa. Sì, suono in maniera diversa. Ma è un processo in cui entrano molte componenti, e mi è impossibile trasmetterlo a parole».
Lei ha dato a lungo l’idea di eseguire più volentieri l’ultimo Beethoven.
«Con una certa audacia ho cominciato a incidere per prime le ultime sonate. L’ho fatto per entusiasmo: difficile immaginare un risultato più significativo, nella prima scuola viennese, del periodo estremo beethoveniano. Che va costantemente studiato e riscoperto, e che ci riserva ancora molte sorprese. Con questo disco e con quello che seguirà completerò l’integrale delle sonate. Probabilmente saranno poi raccolte in un album unico, che dovrebbe comprendere anche incisioni, proprio di queste ultime sonate, effettuate moltissimi anni fa. E che dunque non potrebbe essere rappresentativo della mia idea attuale. È per questo che, ora, mi piacerebbe tornarci sopra».
Sono rimasti leggendari certi suoi concerti nella Milano degli Anni 70. Si veniva a sentirla non solo alla Scala ma anche in fabbrica.
«Erano le serate per lavoratori e studenti promosse dalla Scala di Paolo Grassi e Claudio Abbado. Si suonava nelle fabbriche, ma erano anche i lavoratori a venire al Piermarini. Tutta l’esperienza fu straordinaria, con le integrali delle sinfonie di Mahler e Bruckner dirette da Abbado, e tutto Berg, e un’attenzione particolare alla musica contemporanea, da Boulez a Stockhausen, da Nono a Manzoni».
Prendiamo come buon augurio le recenti dichiarazioni di Riccardo Chailly, che auspica l’occupazione musicale di spazi nuovi, meno canonici.
«Di sicuro quell’esperimento è poi rimasto disatteso, e invece si sarebbe potuto fare di più, magari con modalità diverse e tenendo conto dei tempi cambiati. Ma l’obiettivo deve restare quello: avvicinare alla musica un pubblico sempre più vasto».
Ancora a proposito di Beethoven: lo sta facendo interagire con i nostri contemporanei nel “Progetto Pollini” in corso alla Scala. Il prossimo concerto il 24 febbraio, con musiche di Sciarrino.
«L’operazione ha un senso proprio perché Beethoven è stato il più proteso verso il futuro: per questo reagisce con tanta efficacia se è messo in rapporto ad altri autori d’avanguardia».
Come si vince l’ostilità nei confronti della musica contemporanea?
«È l’eterno falso problema. L’orecchio è abituato alla musica tonale e ne considera i modi e le cadenze come elementi di natura che avrebbero sempre accompagnato l’uomo. E invece quante sorprese quando si analizzano certe composizioni medioevali o rinascimentali! Servirebbe un allargamento dei repertori, soprattutto da parte degli esecutori più giovani. Pensi a quello che è successo ai giapponesi: negli Anni 70, quando cominciò l’invasione dei concertisti occidentali, le loro sale si riempivano anche con programmi tutti contemporanei, e certo aiutava l’assenza nella loro musica tradizionale dei pilastri eufonici tonali. Ora, a forza di proporgli sempre gli stessi brani, sono diventati diffidenti anche loro».
Chi sono i pianisti ascoltati da ragazzo che l’hanno influenzata di più?
«Era l’età dell’oro, quando a Milano si potevano sentire, sera dopo sera, nomi di qualità eccelsa e di carattere così diverso l’uno dall’altro come Backhaus e Benedetti Michelangeli, Richter e Schnabel, Rubinstein e Kempff. Ricordo un concerto al Lirico di un Cortot già molto anziano, con un programma coraggioso: i 24 preludi e i 24 studi di Chopin. E i grandi direttori: il Pelleas und Melisande di Schönberg diretto da Mitropulos, e Karajan, e Bruno Walter. Toscanini l’ho sentito in prova, ma avevo solo otto anni».
E oggi chi apprezza fra i nuovi pianisti?
«Ecco, diciamo che il panorama non è più così ricco. Ma ho ascoltato e ammirato Kissin, che mi pare il migliore della propria generazione».