Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 23 Lunedì calendario

LA PROFEZIA DI COSSIGA "NAPOLITANO PRESIDENTE"


Una lettera di Cossiga, uscita dall’archivio di Napolitano, dimostra che il Picconatore, il Capo dello Stato più discusso nella storia della Repubblica, non considerava l’attuale Presidente tra i suoi carnefici. E gli riconosceva, anzi, di essersi opposto alla rude campagna con cui l’ex-Pci, da poco trasformato in Pds, tentò di sfrattarlo dal Quirinale. Una vecchia storia di vent’anni fa, a cavallo tra la caduta della Prima e l’avvento della Seconda Repubblica. Tornata d’attualità ora che Grillo minaccia l’impeachment di Napolitano e lo accusa di comportarsi come il predecessore di cui allora chiedeva le dimissioni.

Chissà se tra i tanti argomenti del messaggio di Capodanno - il primo del nuovo settennato, dopo quello conclusivo del 2012 - il Presidente deciderà di parlarne, magari inserendola tra le preoccupazioni espresse senza mezzi termini il 16 dicembre, nel discorso di auguri alle alte cariche dello Stato. Un anno fa il bilancio della sua presidenza, senza ridimensionare l’elenco delle difficoltà del Paese, era percorso da un filo di speranza che Napolitano sentiva di dover lasciare ai cittadini, a cui pensava di rivolgersi per l’ultima volta dal suo studio al Quirinale, a una classe politica in attesa di rinnovarsi con le elezioni politiche, e ovviamente al suo successore. In quel momento non immaginava proprio di dover succedere a se stesso. E neppure che il 2013, l’ottavo anno della sua presidenza, si sarebbe rivelato più difficile degli altri sette.
I risultati elettorali che per la prima volta, nei vent’anni della Seconda Repubblica, non hanno incoronato un vincitore; l’incapacità della classe politica di trovare un’intesa, sia per formare un governo, sia per eleggere un nuovo Capo dello Stato; la rielezione a sorpresa, decisa nel corso di una notte; la nascita svogliata del governo di larghe intese, la sua rapida consunzione dopo la condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione, con l’avvento del nuovo equilibrio nato dalla divisione del centrodestra; tutto ciò, sullo sfondo di una crisi economica e sociale che non accenna a risolversi e ogni giorno apre nuove crepe nelle fasce più deboli della società. I dati fondamentali dell’anno che sta per concludersi sono questi e il Presidente, non a caso, ha voluto ricordare di recente quanto «gravoso» sia diventato il suo incarico, specie in un quadro in cui ogni solidarietà tra le forze politiche rischia di venir meno e s’è rotta pure la larga convergenza che lo aveva convinto a restare al Quirinale.
L’attacco di Grillo, che ha proposto l’impeachment di Napolitano, è fondato infatti sulle parole che lui stesso aveva usato in un articolo del 29 novembre 1991, dedicato a Cossiga, in cui definiva «incompatibile» con il suo ruolo il comportamento avuto nell’ultima parte del suo mandato, quando non perdeva occasione per andare all’attacco della Prima Repubblica che stava per franare. Napolitano, secondo il leader di M5s, oggi esagera come il Picconatore e per questo dovrebbe essere messo in stato d’accusa. In pochi giorni questa è diventata più o meno anche la posizione di Berlusconi, che accusa il Capo dello Stato di essere stato il regista del «golpe» che lo ha deposto e ora punta addirittura a mandarlo in galera. Così, nel giro di pochi giorni, il clima politico attorno al Colle è radicalmente mutato, senza peraltro che dal centrosinistra, lo schieramento in cui il Presidente ha militato per tutta la vita, si levino grandi voci in sua difesa.
In realtà la storia del (mancato) impeachment di Cossiga, tra la fine del 1991 e l’aprile del ’92, quando appunto il Picconatore, a sorpresa, decise di dimettersi due mesi prima della fine del suo mandato, andò in modo diverso da come Grillo l’ha rievocata e Berlusconi l’ha fatta sua, seppure senza associarsi fino in fondo alla minaccia della messa in stato d’accusa. La decisione di puntare sul Colle, e colpirne l’inquilino che da qualche tempo aveva cominciato a sparare le sue cannonate, l’aveva presa Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci e primo leader del Pds, dopo la famosa svolta della Bolognina dell’89 e il cambio di nome imposto dalla caduta del muro di Berlino. A maggio del ’91, con quattro interpellanze parlamentari, aveva preannunciato la richiesta di impeachment, alla quale, invece, s’erano opposti Napolitano e tutta la corrente riformista del partito. La tesi dei «miglioristi» - così erano definiti spregiativamente dagli occhiettiani gli esponenti della ex-destra comunista - era che la messa in stato d’accusa non poteva e non doveva essere l’unica strada per opporsi agli sconfinamenti del Picconatore. Piuttosto si potevano chiedere le dimissioni, o mettere in conto che, constatata la durezza della posizione del maggior partito di opposizione, il Presidente, che aveva sconfinato, decidesse di rientrare nei ranghi.
Cossiga seguiva a distanza il dibattito nel Pds. Abituato alle liturgie comuniste, in cui la regola ferrea del centralismo democratico impediva al dissenso di manifestarsi apertamente come negli altri partiti, trovava un po’ debole l’opposizione di Napolitano, Macaluso, Chiaromonte e di quel che restava degli amendoliani, che di lì a poco, qualche settimana dopo le dimissioni del Presidente contestato, sarebbero stati liquidati e cancellati, quasi, dal vertice del Pds (anche se Napolitano trovò poi nuovi sbocchi sul piano istituzionale, prima come Presidente della Camera nel ’92 e poi come ministro dell’Interno nel ’96). Per sfotterli, li chiamava «vegetariani», come a dire che quando la carne è lacerata e corre il sangue, non serve andare tanto per il sottile.
Ma ora appunto la lettera uscita dall’archivio personale di Napolitano rivela che, col tempo, il Picconatore si ricredette, rendendosi conto che i miglioristi non potevano fare di più, alla vigilia della loro sconfitta interna nel partito. La missiva è datata 2 novembre 2005 ed è dedicata al libro Dal Pci al socialismo europeo, l’autobiografia di Napolitano, che Cossiga aveva ricevuto dall’autore e di cui aveva notato le pagine (261 e 262) in cui si descrivono gli ultimi mesi difficili di convivenza tra la maggioranza e la minoranza nel Pds: «Ho molto apprezzato - scrive - il riferimento al dissenso dell’area riformista del Pci (usa il vecchio nome anche se è stato accantonato da due anni) su episodi che hanno dolorosamente coinvolto la mia persona». Poi, a segnalare che anche tra gli occhettiani c’era stato chi si era pentito, aggiunge a penna un riferimento «ad alcuni che dissentivano da te» e «si sono ricreduti». Ma il capolavoro finale sta nella conclusione, sempre a penna, in cui l’ormai ex-Picconatore si augura che «il centro-sinistra valorizzi» Napolitano, e conclude: «Ma perché non eleggerti Capo dello Stato? Io ti voterò». E’ una profezia che nel giro di sette mesi si avvererà. Ma al di là di questa ulteriore prova della capacità visionaria di Cossiga - il cui ruolo nella vita politica italiana non si era concluso con l’abbandono del Colle, ed era stato decisivo, tra l’altro, per portare a Palazzo Chigi Massimo D’Alema, primo presidente del consiglio post-comunista -, la lettera, venuta fuori in questi giorni di sorde contrapposizioni, testimonia di uno stato dei rapporti interni alla classe politica (in cui la durezza degli scontri non doveva mai intaccare le relazioni personali), forse perduto per sempre. E oggi più che mai rimpianto da Napolitano.