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 2013  dicembre 24 Martedì calendario

EGITTO, PARTE IL CAMPIONATO DELLA RESTAURAZIONE

Non c’è due senza tre? L’esercito egiziano è pronto a schierare i tank, pur di smentire il proverbio. Il campionato riprende oggi, il terzo tentativo degli ultimi tre anni. Il primo arresto dopo la notte di Port Said (1-2-2012), quando 72 tifosi dell’Al Ahly - schierati coi rivoluzionari - vennero massacrati nell’inerzia della polizia. Si riprese la stagione successiva, fra stadi blindati e strade in fiamme, prima che il putsch militare consigliasse di fermarsi ancora a fine giugno. Una nuova interruzione indebolirebbe il governo imposto dall’esercito, che fonda il proprio consenso sulla richiesta popolare di stabilità.
I militari non hanno lasciato nulla al caso. Il torneo ora è diviso in due gironi: il sorteggio ha separato l’Al Ahly dallo Zamalek (storica rivale cairota) e soprattutto dall’Al Masry (la squadra di Port Said, 21 tifosi della quale sono stati condannati a morte per il massacro). Non basta: stadi chiusi almeno per il girone di andata e Al Masry costretto a giocare nell’impianto militare di Suez, sia in casa che in trasferta. Onde evitare sorprese, il governo ha arruolato a forza i giocatori nella macchina del consenso, chiarendo che rappresentano sempre e comunque l’intero Egitto. Nobile concetto per un messaggio molto più pratico: chi mai si azzarderà a celebrare un gol con un’esultanza politica, incorrerà in sanzioni draconiane. Chiedere ad Abdul Zaher dell’Al Ahly, un anno di squalifica per aver festeggiato nella finale di Champions con un gesto che commemorava il massacro dei Fratelli musulmani. Le partite verranno trasmesse dalla tv pubblica, e non più da Al Jazeera . Due piccioni con una fava: il governo si garantisce così la possibilità di censurare immagini sgradite, e assesta un bel calcio sugli stinchi al Qatar, schierato coi Fratelli musulmani. Se aggiungiamo la continua repressione cui sono sottoposte le curve, la ripresa del campionato restituisce un’immagine fedele della fase politica egiziana: una restaurazione implacabile verso quello «Stato degli ufficiali» che i moti rivoluzionari sono riusciti soltanto a scalfire.
Il referendum costituzionale di gennaio è il primo test per la tenuta del torneo. E febbraio è atteso con ancor più ansia, perché porterà le sentenze d’appello su Port Said, destinate a incendiare i tifosi dell’Al Ahly o quelli dell’Al Masry. Le curve, però, sembrano aver perso la determinazione feroce della prima fase. La notte di Port Said ha centrato l’obiettivo: molti dei ragazzi che due anni fa combattevano in prima linea oggi sono esausti, piegati da una transizione infinita e dolorosa. Così diceva la scorsa primavera un ultrà dell’Al Ahly: «Sono stato a Tahrir dal primo giorno, mi sono risvegliato in ospedale dopo la battaglia di Mohammed Mahmoud, ho perso 72 fratelli a Port Said. Ora basta: faccio la rivoluzione dal divano e combatto solo per il mio gruppo. Questo Paese non è pronto per la democrazia». Forse mai dalla loro fondazione, al tramonto dell’era Mubarak (2007), gli ultrà sono stati così divisi e così lontani dalle lotte politiche. Guai a darli per finiti, in un Paese che ha scelto di riportare indietro le lancette senza risolvere le contraddizioni pre-rivoluzionarie. Ma questo - per gli attivisti come per le curve - non è certo il momento migliore in cui tirar la testa fuori dall’acqua.