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 2013  dicembre 24 Martedì calendario

JACKSON MARTINEZ SHOW

L’uomo (mercato) da 40 milioni di euro si presenta al centro sportivo dell’Olival, con voce e occhi bassi. È timido, umile, ma in campo si trasforma. Lui non si vanta, ma al primo anno in Europa, 2012-13, ha segnato più di un certo Falcao. E ha suscitato l’interesse di tanti club europei di vertice. Che a gennaio vorrebbero prenderlo. Jackson Martinez, 27enne, ama la musica, il basket, Dio e fare gol. Non sempre in questo ordine.
Lei al Porto al primo anno: 26 gol in campionato, uno in più dell’ex Falcao.
«Mi hanno aiutato molto i compagni, su tutti James Rodriguez, dalla Seleccion conosceva i miei movimenti e qualità e le ha fatte fruttare. Mi è stato molto vicino, mi ha invitato a vivere a casa sua nei primi mesi, quando mia moglie e mio figlio erano in Colombia. Dopo mi sono trasferito nella casa di Falcao».
Ecco la casa, il n. 9 e il ruolo. Non teme confronti con Falcao e le punte che da qui son passate come Lisandro Lopez, Hulk, Rodriguez.
«Non mi piacciono i paragoni. Ma non mi mettono pressione. Sapevo che il Porto è un’occasione da sfruttare, una benedizione, era normale che Falcao andasse in un altro club dopo quello che ha fatto. Chiaro anche che la gente sperasse in qualcuno che lo potesse avvicinare come rendimento. Io mi sono concentrato sul mio obiettivo. Speravo in un buon anno, non a questo livello...».
Ha un contratto col Porto fino al 2016, con una clausola di 40 milioni di euro.
«Mi sembra una cifra immensa, un anno a Porto è esploso il mio valore. In Messico mi presero per 3 milioni. E agli inizi al Dim guadagnavo 150 euro…».
Anni fa disse che le piaceva il calcio inglese e spagnolo, ora la seguono Napoli e Chelsea in primis. Futuro?
«Da piccolo tifavo Chelsea e Arsenal, e credo che i tornei migliori siano la Liga, la Premier e la Bundesliga, che è cresciuta molto negli ultimi anni».
La serie A non le interessa?
«No, è sempre un buon campionato; sì, anche l’Italia, me l’ero scordata. Anzi rispetto alla Liga la vedo più competitiva, con più squadre forti, anche le piccole giocano a buon livello».
Se battete l’Eintracht, potreste trovare il Napoli.
«Ho molti amici in Italia, a Napoli Zuñiga e Armero, coi quali mi sento spesso e quando posso seguo le loro partite. Come con Cuadrado della Fiorentina o Muriel dell’Udinese, a volte Guarin dell’Inter. In tv vedo molte gare di Juve, Milan, Inter e il Monaco di James e Falcao».


Del Napoli che le pare?
«Grande squadra, forte, forse doveva cercare la qualificazione di Champions prima, e non dipendere dagli altri, ma ha fatto tanto e bene nel suo girone. Come noi con l’Atl. Madrid l’ultima partita, l’abbiamo persa 2-0 ma abbiamo preso 4 pali, un rigore sbagliato sull’1-1, avremmo meritato di più».
Quali sono le sue qualità?
«Intanto mi prefiggo sempre di migliorarmi. Chiaro che si nota che sono più bravo di testa perché sono alto e forte, però colpisco anche con entrambi i piedi, e credo che pure il basket, che ho praticato da piccolo, mi abbia aiutato: è sport di contatto, ho appreso a difendermi».
Lei come si schiererebbe?
«Seconda punta, mi è sempre piaciuto muovermi dietro a un altro, come facevo in Messico. Ma mi adatto da 9 puro, come mi chiede Paulo Fonseca qui. Da piccolo ero portiere, forse perché ho le braccia lunghe».
A proposito d’infanzia. Come ha iniziato a giocare?
«Papà aveva una scuola calcio per bambini a Quibdó. Ma non mi voleva portare. A 6 anni ho pianto così a lungo che un giorno l’ho costretto a farmi provare. Ed è rimasto meravigliato delle mie qualità. Io prima prendevo a calci solo palle di carta, pietre o le teste delle bambole di mia sorella».
Ha ereditato il nomignolo Cha cha cha da suo padre.
«Papà amava i balli sudamericani, era una punta e amava festeggiare i gol con passi di danza. Per questo lo chiamarono così. Ma non arrivò a essere pro, perché quando sono nato io e le mie sorelle ha dovuto lavorare, col calcio allora non si guadagnava tanto. Anche ora analizzo con lui le mie gare e mi spiega in cosa migliorare».
Da piccolo lei aveva altri interessi oltre al calcio?
«Il basket. Ma sapevo che non avrei avuto futuro col basket, da noi è uno sport con poca tradizione, non era un trampolino per una grande Liga. Ci ho giocato fino ai 14-15 anni, quando già ero in un club di calcio, la sera con gli amici, per strada».
Lei, per i veloci ritmi sudamericani, è arrivato tardi in Europa, a 26 anni.
«Il mio primo tecnico Sarmiento mi fece debuttare a 18 anni. Ma andò via nel 2005 e ho dovuto aspettare 4 anni per avere un altro allenatore, come Santi Escobar (e poi Leo Alvarez), che mi desse di nuovo fiducia. E nel ’09 abbiamo vinto il Finalización e sono stato il migliore del torneo e capocannoniere».
Che cosa l’ha aiutata in quei 4 anni difficili?
«La famiglia e la fede. Da 7 anni sono molto religioso. Ho pubblicato 2 dischi (Gracias a Dios e Dicen qué ), li avevo incisi per divertimento, poi li hanno voluti pubblicare e hanno avuto successo. Ho sempre amato cantare e scrivere canzoni».
Da Medellin in Messico nel 2010, prima l’ha cercata solo l’Ulsan coreano.
«Molti club europei si erano interessati a me, ma nessuno mi aveva fatto una proposta. I coreani mi fecero un pre-contratto. Solo che poi nel contratto le condizioni erano diverse dalle concordate. Scelsi il Messico».
A un Mondiale la Colombia non si qualificava dal 1998.
«Ce la giocheremo gara dopo gara, è una buona nazionale, non ci poniamo limiti e possiamo arrivare lontano, nelle eliminatorie abbiamo dimostrato che siamo cresciuti (secondi), abbiamo guadagnato rispetto, 9 vittorie e tanti gol».
Falcao, Gutierrez, Rodriguez, Bacca, Muriel, Montero: tanta concorrenza?
«È difficile essere titolare in nazionale, tutti stanno facendo bene, sarà difficile per il c.t. scegliere, non è mai successo d’avere così tante opzioni».