Tommaso Labranca, Libero 22/12/2013, 22 dicembre 2013
MARIO RIVA – IL GENIO POP DEL MUSICHIERE RIVOLUZIONARIO DELLA TIVÙ
Ho aspettato per un anno che la Rai dedicasse almeno un ricordo a una colonna della sua storia. Nessuno in viale Mazzini si è ricordato che il 2013 segna il centenario dalla nascita di Mario Riva.
Quella televisione di Stato sempre pronta ad autocelebrarsi a ogni decennale, iniziando dalla prima retrospettiva storica del 1955, e che a gennaio tornerà a incensarsi per i suoi 60 anni non ha fatto nulla per ricordare, almeno di notte o nel lungo periodo di repliche estive, Mario Riva, l’uomo che con il Musichiere rese umana la televisione e ne favorì la diffusione capillare nel Paese.
Riva, nato a gennaio, era dell’Acquario. Per chi ci crede, segno legato all’elettricità, portatore di novità e sconvolgimenti. E anche chi non crede nell’astrologia deve ammettere che Mario Riva aveva le caratteristiche del segno, compresa la capacità di rendere semplici le cose difficili. A cominciare dal suo nome, Mariuccio Bonavolontà, troppo lungo e complesso e quindi accorciato in un più musicale Mario Riva, fatto di quattro sillabe che sembrano note.
Dopo gli esordi nel teatro, tra commedie e grandi riviste, ci fu negli anni 40 la prima svolta «elettrica» e Mario fece parte del cast di una trasmissione radiofonica molto seguita, Il terziglio, che vantava anche testi di Fellini. Da lì partì la sua carriera cinematografica in tante commedie leggere, ai tempi snobbate dalla critica e che oggi sembrano capolavori di grazia se paragonate a certe attuali produzioni natalizie.
Poi, all’improvviso, la seconda svolta «elettronica», il salto nella televisione. Gli autori Garinei e Giovannini, con cui aveva lavorato a lungo in teatro, gli affidarono nel 1955 un programma oggi poco ricordato, Duecento al secondo, un gioco a premi ispirato a un format americano durato solo 15 puntate. I politici trovarono le penitenze inflitte ai concorrenti troppo umilianti: mettersi a quattro zampe e abbaiare come un cane. Ci fu la solita interpellanza parlamentare, perché allora i deputati, non avendo l’iPad con cui giocare a solitario, avevano più tempo per guardare la televisione e si indignarono davanti a «spettacoli che rivelano soltanto la volgarità d’animo dei loro ideatori».
I «volgari» Garinei, Giovannini e Riva non si persero d’animo e nel dicembre del 1957 tornarono in tv con un’idea semplice: indovinare il motivo accennato dall’orchestrina. Sembra una stupidata, era il trionfo della modernità.
Prima di tutto perché rendeva mediatico il gioco da sagra di paese. Poi per gli arrangiamenti jazz di Gorni Kramer che poco avevano della mielosità melodica italiana. Quindi il marketing legato alla trasmissione: il pupazzo-mascotte, la rivista omonima pubblicata da Mondadori cui era allegato un flexi-disc, una serie di spettacoli nei teatri durante uno dei quali, a Verona, Riva cadde dal palco e si ferì fino a morirne a soli 47 anni.
Non ultimo tra gli elementi di modernità il fatto che i concorrenti indossassero scarpe da ginnastica bianche per poter correre più veloci verso la campana. Nel 1958 non era cool girare con scarpe sportive. Anzi, erano simbolo di miseria. «C’hai le scarpe da ginnastica e viaggi in vagone letto? », domanda Alberto Sordi a un tizio messo male nel Vigile di Luigi Zampa. Lo stesso film in cui Mario Riva compare as himself e, intervistando Sylva Koscina, intesse un divertente dialogo «interattivo» con il vigile Otello Celletti che lo segue circondato dall’invidia degli amici nel bar stipato.
Perché il Musichiere era diventato un fenomeno nazionale e al sabato sera richiamava 19 milioni di telespettatori. Il merito era soprattutto di Mario Riva e del suo modo diretto di condurre. La capacità di rendere semplici le cose difficili. Riva ha evitato che la televisione italiana diventasse troppo paludata e rigida in quegli anni di eccessivo perbenismo, ha usato un linguaggio comune, non si è mai intimidito davanti alle star mondiali che passavano nel suo programma, ma le trattava come vicini di casa. Popolare, ma mai volgare (Bonolis impari). Buono, ma non buonista (Fazio impari). Romano eppure in grado di rappresentare la nazione (Max Giusti impari).
Magari i conduttori che ho citato vorrebbero imparare, ma come potrebbero se l’in - grata Rai ha deciso la damnatio memoriae di colui che più di qualsiasi altro ha contribuito per svecchiare una televisione che, a tre anni dalla sua apparizione, già sapeva di muffa.