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 2013  dicembre 22 Domenica calendario

CAMILLO DE LELLIS, DA GIOCATORE A «SANTO DEGLI INFERMI»


Camillo de Lellis prima di diventare il santo dei malati e quello che i repertori definiscono un vero gigante della carità, ancor privo dell’abito religioso e di quella che il mondo considererà una volontà di ferro, condusse vita randagia. Amante dei giochi e di ogni forma di divertimenti, tra i quali era compresa la guerra, insofferente alle discipline, allergico agli studi e alle relative fatiche, sfidò rischi e inseguì avventure belliche in Dalmazia, in Africa; riuscì a riscuotere uno stipendio dalla Serenissima repubblica di Venezia e anche dalla Spagna. Fu una piaga a un piede che lo costrinse a entrare in San Giacomo degli Incurabili a Roma ma, allorché potè ristabilirsi, ritornò alle armi e al gioco. Anzi, lo fece con tanto entusiasmo da perdere tutti suoi averi. Sappiamo che nell’autunno del 1574, a 24 anni suonati, per evitare di chiedere l’elemosina si rassegnò a fare il manovale in una fabbrica di Cappuccini a Manfredonia. Dopo pochi mesi il santo luogo favorisce un cambiamento e, all’inizio di febbraio del 1575, succede qualcosa di particolare nel suo cuore di gaudente e sfaccendato: chiede e riceve l’abito dell’ordine per il quale stava sopportando pesanti fatiche. Tuttavia la piaga riprende a tormentarlo e, come ricorda Sanzio Cicatelli nel XII capitolo della «Vita del Padre Camillo de Lellis» (pubblicata a Viterbo nel 1615, ora disponibile online sul sito www.camilliani.org), per questo malanno egli «vien licentiato dall’Ordine». Riprende la via di Roma per le cure, rientra a San Giacomo, ove — osserva ancora il ricordato biografo — egli volle «ritornare in Religione per consumar ivi la sua vita in santa penitenza».

Al di là dell’aspetto agiografico, l’opera non manca di offrire alcune indicazioni, giacché Camillo si recò nella città eterna «non solo per guarir bene della piaga, ma anco per guadagnar il S.mo Jubileo dell’Anno Santo che in quel 1575 da papa Gregorio XIII si celebrava». Il giocatore non è più tale, l’uomo d’arme pensa ad altro e, come narra appunto il Cicatelli, «havendo prima le sue devotioni prese, non volendo poi perdere vanamente il tempo per Roma si pose di nuovo a servire l’infermi di S. Giacomo delli Incurabili. Nel qual Hospidale con altra edificatione che non haveva dato la prima volta mutato affatto in altr’huomo circa quattr’anni perseverò, salendo di grado in grado per tutti gli Uffici di quel luogo».
Il resto della sua vita potremmo considerarlo una conseguenza di queste illuminazioni, una conversione che si completa nella loro pratica. Quella piaga al piede gli aprì gli occhi. E ora Giorgio Cosmacini, uno degli storici della medicina di riferimento della nostra epoca, ha dedicato a lui una monografia: «Camillo de Lellis. Il santo dei malati» (Laterza). In essa viene ricostruita l’esistenza e l’opera di un uomo che, come scrive nella prefazione al libro Diego Gracia Guillen dell’Università di Madrid, è un esempio singolare, «perché aderisce perfettamente alla nota definizione di Max Scheler, secondo il quale un modello umano e di vita è tale quando realizza una qualità valida in maniera tanto perfetta che il valore si completa identificandosi con la persona». Cosmacini studia tutte le fasi della straordinaria esistenza, i passaggi e i salti che essa compie; o meglio osserva attentamente mossa dopo mossa quell’uomo che da «soldataccio» diventa «frate Humile», apprendista ospedaliero, maestro nelle cure, che sa coniugare l’abito con l’ars curandi , che concepisce una Regola, che sa quale miccia accendere per produrre nella società una rivoluzione culturale.
Occorre aggiungere che, proprio nella sua permanenza a San Giovanni, Camillo comprende ed elabora in termini definitivi la sua vocazione all’assistenza dei malati. Insieme ai primi cinque compagni che lo avevano seguito nell’esempio consacrandosi alla cura, dà vita nel 1582 alla Compagnia dei Ministri degli infermi, la stessa che da papa Sisto V, nel marzo 1586, otterrà l’approvazione dei propri statuti. Il trasferimento nel convento della Maddalena diventa un ulteriore passo, così come la guida spirituale di Filippo Neri che lo riporta agli studi. Ed è grazie a essi che il 26 maggio 1583 Camillo de Lellis potrà essere ordinato sacerdote. Cosmacini sottolinea come nel maturo e tardo Cinquecento codesti progetti si inseriscano nel quadro della Riforma cattolica e come la Regola dell’Ordine camilliano, dettata ai «ministri dagli infermi» nel 1594, sia «edificante in ogni sua riga». Del resto, in essa «si parla di carità non solo fraterna, ma addirittura “materna”: i ministri devono assistere gli infermi come una madre potrebbe assistere il proprio bimbo malato».

Nel saggio di Cosmacini si possono notare tutte le prospettive che nascono dalla nuova concezione della cura, dove l’amore insegnato e testimoniato dal Cristo si concretizza in qualcosa di sconvolgente rispetto alle regole del mondo. Si capisce, per esempio, come nasca l’idea di porre una croce sul petto ai nuovi religiosi, perché c’è un «precorrimento della Croce Rossa» (che nasce nel 1859 alla battaglia di Solferino) e come venga realizzato un «umanesimo dal basso». Siamo dinanzi a un vero cambiamento di rapporti. Nel capitolo dedicato a «L’infermiere ideale», Cosmacini scrive: «Camillo intuisce che il momento è opportuno per realizzare ciò che da tempo è venuto maturando: la necessità di un’assistenza integrata, completa». Insomma, qualcosa che assomiglia a un’inversione di coordinate dell’assistenza medica, con tutte le difficoltà del caso. Le quali — nota più avanti l’autore — sono ancor maggiori se si pensa che agli inevitabili impedimenti interni si sommano quelli esterni, «inerenti cioè ai rapporti non facili con altre comunità, insediate da tempo nei medesimi luoghi con scopi competitivi e che magari godono di consolidata benevolenza o di acclarata protezione da parte dell’autorità ecclesiastica locale».
Camillo de Lellis restituisce attenzioni e comprensione in un’epoca nella quale una pestilenza era una calamità per noi inimmaginabile e in cui carestie e pratiche belliche erano normalità. Egli, come sottolinea nella conclusione del suo libro Cosmacini, «per l’eccellenza della sua opera» sarà «accreditato del titolo di riformatore dell’assistenza e, in questo libro, anche di rivoluzionario della cultura medico-sanitaria». C’è poco da aggiungere. Moltiplicò i luoghi di cura, fece del proselitismo che restò nel tempo, cambiò le regole che i secoli avevano elaborato negli ospedali. Utilizzando soprattutto quelle della sua fede.