Gianni Mura, la Repubblica 22/12/2013, 22 dicembre 2013
UN PALLEGGIO SULLA SPIAGGIA FAVOLA PER L’INTEGRAZIONE
Può anche sembrare una favola di Natale, ma è tutto vero e comincia in estate. Uri è un paese di tremila abitanti, vicino a Sassari. La sua squadra di calcio, maglia a righe gialle e rosse, si chiama Atletico Uri. Neopromosso in Prima categoria, dov’è tornato dopo 13 anni. Presidente Tore Ardu, patron Gavino Satta, allenatore Giovanni Muroni. Goleador Antonio Borrotzu, 35 anni, passato anche dal Messina in C, ma chiuso da Godeas, Corona e Torino. Borrotzu è Mister 200 gol. Ne ha segnati in mezza Sardegna, ha firmato per l’Atletico Uri perché gli garantiva un posto di lavoro come guardia giurata. Budget inferiore ai 25mila euro annui. «Meno di quanto chiedo in genere per un anno di lavoro. Ma gli ho detto: mi sembrate brave persone, quindi per voi lavoro gratis». Così dice Muroni, nato a Bonorva, classe 1936. «Mi sa che sono l’allenatore in attività più vecchio d’Italia. A fare il corso con me c’era Ventura del Torino, ma assai più giovane». Muroni nel calcio isolano è una specie d’icona. Ha già vinto nove campionati e con l’Atletico punta al decimo. Ultimo di sette figli, s’era arruolato nei carabinieri, poi ha fatto carriera come funzionario alla Banca d’Italia. Era in ottimi rapporti con Fulvio Bernardini, è in buoni rapporti con Pierino Prati. Insomma, lavora nel calcio minore ma non è spaesato nel calcio di livello superiore, e in più ha scoperto Langella, detto Arrogutottu.
A Muroni la parola: «Lu Bagnu è una spiaggia di Castelsardo. Ero steso lì quando ho visto palleggiare un gruppo di ragazzi. Uno, africano, mi era già passato davanti col suo borsone di cianfrusaglie, l’avevo notato più che altro per l’altezza. E dopo un po’ è lui che resta a palleggiare da solo, gli altri intorno. E quasi non ci credo: cento, duecento, trecento palleggi. Destro, sinistro, testa, ginocchio, tacco, tutto il repertorio senza mai perdere il controllo del pallone, a piedi nudi. Allora mi sono detto: o questo qui è un fenomeno da circo, oppure potenzialmente è un grande calciatore. Sono andato da lui e gli ho chiesto se gli andava l’idea di fare una partitella su un campo vero. E ha detto di sì».
Il palleggiatore si chiama Samb Falou Ndiaye, senegalese, nato il 17 luglio 1997. Ancora Muroni: «Era arrivato in Italia da tre mesi appena, non capiva l’italiano. In Italia da cinque anni c’era suo padre e un fratello di 15 anni, a Sassari da due. Della partitella ha giocato solo il primo tempo, era stanco perché dalla mattina presto era in giro sulla spiaggia col suo borsone. Ma mezza mi è bastata. Bella corsa, calciava facilmente coi due piedi, la cosa più difficile è stata trovargli un paio di scarpe numero 47. Come Ibrahimovic, se ricordo bene. Dopo la partitella ho telefonato al presidente. Stavano per scadere i termini del tesseramento, c’era da fare una corsa in auto fino a Cagliari, e il presidente c’è andato, col dirigente Antonello Mura».
Che non è mio parente, precisazione dovuta. «E così abbiamo tesserato Falù, prima cosa». Falou da qui diventa Falù, come lo chiamano tutti a Uri e a Usini, il paese confinante. «Noi giochiamo sul loro campo, che è bello, in sintetico, con le tribune coperte, ci si è allenata anche la Torres. Sa dov’è Usini?». E come no. Ci ero andato nel ’91 con Rodica Popa, grande pallavolista romena che a 41 anni giocava in B a Sassari, tutt’e due folgorati dal Vermentino Tuvaoes di Giovanni Cherchi detto Tiu Billia. Ma il campo, ammesso che già ci fosse, non l’avevo visto, ero più interessato alla storia di un vitigno autoctono da salvare, il Cagnulari. Ma questo a Muroni non lo dico, ci svierebbe dalla storia di Falù. «Prima cosa tesserarlo, seconda iscriverlo a scuola. Fa le magistrali a Sassari e va piuttosto bene, lo dico perché seguo il suo rendimento anche fuori dal campo e l’alimentazione».
E in campo com’è? «E’ diventato la mascotte del paese, come l’avessero adottato. Abbiamo rimediato un paio di stufe perché dove vive il padre non c’era riscaldamento. Diamo una mano per l’affitto. Stiamo cercando di fare arrivare dal Senegal anche la madre e la sorellina. Noi sardi siamo un popolo che sa cos’è l’emigrazione. E l’integrazione: ci siamo integrati nel resto d’Italia e del mondo, a queste cose siamo abituati e non serve che qualcuno ce le venga a spiegare. In campo, le dico solo che ha già fatto sei gol e che la squadra l’ha accettato subito. Col Gymnasium Borrotzu s’è procurato un rigore e ha detto a Falù: tiralo tu. E il ragazzino, che è alto 1.92, l’ha messa nel sette. Lo faccio giocare esterno di centrocampo nel 4-4-2, destra o sinistra è uguale, sa crossare bene. No, il centravanti-boa non può farlo perché non è abituato al gioco di squadra, ai movimenti necessari. Però sta imparando in fretta. E sa una cosa? L’Atletico con Falù ha incassato più in questo scorcio di campionato che in tutto quello dell’anno scorso. E al tifo del paese s’aggiunge quello di una trentina di venditori senegalesi della zona. E vuole sapere l’ultima? Una squadra di A e una di B ci hanno già chiamato per fare un provino a Falù. Se non li scrive le dico i nomi». Me li dice e non li scrivo. E penso che se quel giorno d’estate ci fosse stata pioggia su Castelsardo ora avrei scritto un’altra storia.