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 2013  dicembre 22 Domenica calendario

SERENA VITALE – [PUSKIN, MANDEL’STAM E LA MIA ANIMA RUSSA HO VISSUTO INSIEME A MERAVIGLIOSI FANTASMI]


Se c’è ancora un’anima russa che gira per l’Europa questa è nel cuore e nella testa di Serena Vitale: la nostra più grande slavista, dotata di una intelligenza talmente veloce che i pensieri si inseguono al ritmo delle zampe scatenate di un cosacco. Ho amato i suoi libri tersi e scintillanti: a cominciare dal Bottone di Puskin per finire con quel mirabolante racconto dei suoi anni moscoviti. Sono certo che amerò anche i prossimi. Smanetta sul cellulare, con la sigaretta accesa che le pende dal lato della bocca. Sta cercando le foto di Majakovskij: «Era bellissimo, anche da morto, guardi qui», dice con trasporto. Sono mesi che gira intorno al poeta. Lo pedina, lo osserva, lo studia. Ride con lui, piange con lui, vede attraverso lui. Penso che gli amori veri sono così: un po’ ossessivi. Ti fanno dimenticare del resto del mondo. Ora è Majakovskij, ieri era Puskin o Mandel’stam, o Belyj. Pezzi di vita e di strada fatta assieme a questi meravigliosi fantasmi. È l’anima russa. Dove nulla è più vero dell’impalpabile. Nulla è più al centro di ciò che è ai margini. Ride. Si tocca i capelli. Mi aspetto, da un momento all’altro, che cominci a declamare una poesia. E invece improvvisamente si fa seria.
Sono stati importanti i poeti nella sua vita?
«In tutti i sensi, la cosa più importante».
Dove è nata?
«Fieramente a Brindisi. Poi, quando avevo dodici anni, i miei si sono separati. Con mia madre ci siamo trasferiti a Roma. Cominciarono gli anni difficili».
Quanto difficili?
«Parecchio. Una certa povertà, mia sorella che non stava bene. Vivevamo al quartiere Africano. Dai palazzoni si scorgevano gli ultimi bagliori pasoliniani: baracche e promiscuità. Poi, giovincella, cominciai a uscire: il liceo Giulio Cesare, un flirt con un ragazzo. La sera, spesso, in una trattoria specializzata in mezze porzioni. Il must era il pollo con i peperoni. Poi il cinema. Al Farnese. C’era quello dei gelati che somigliava a Dostoevskij. Una sera l’incanto finì. Qualcuno dalla sala gli gridò: A Gorkij portece du cremini».
Fantastico, un battesimo slavo in piena regola.
«Chissà, del resto venivo da una famiglia di russomani».
Cosa facevano i suoi?
«Mio padre era violinista. Veniva da una famiglia di liutai. Insegnò musica anche a Domenico Modugno. La mamma nel sistema dei pianeti voleva essere il centro».
In che senso?
«Stabiliva il ruolo di tutti: il figlio maschio medico, mia sorella pianista e io, la bruttina intelligente, professoressa. Pensi che per invogliare mio fratello alla futura professione gli regalò Sinue l’egiziano».
La storia del medico e del faraone. E si vedeva nel ruolo assegnatole?
«Non lo so. La signorina Fucile — zitella abbandonata sull’altare e insegnante di matematica — diceva che ero una peciona ma molto dotata nella sua materia. Sì, potevo trasformarmi in una professoressa di matematica. Oggi ho l’impressione di aver dimenticato tutto. Mi è restata la logica. Ogni tanto penso che nei momenti difficili la logica mi sia stata utile».
A quali momenti pensa?
«A quelle tre o quattro storie che mi hanno schiantata».
Prima faceva un cenno su sua sorella.
«Fu una vicenda terribile. Studiava al conservatorio, era una pianista promettente. Poi un giorno le diagnosticarono una forma di schizofrenia. Girammo l’Europa nella speranza di poterla aiutare. Un medico svedese le praticò la lobotomia. Era una creatura bellissima. Fu deprivata di una parte di sé. E poi è morta a Santa Maria della Pietà. Questo è tutto».
E lei come ci sta in questo tutto?
«Malissimo, ancora oggi. Mi accorsi della malattia un giorno che eravamo nella stessa stanza. Stava lavorando a un maglione di lana a righe grigie e arancioni. A un certo punto, con una forbice lo tagliò in due. Le dissi: ma che fai, così lo rovini. Lei mi guardò sbigottita: no, rispose seria, dov’è il taglio metterò dei bottoni. Non aveva senso. Ma era la separazione a colpirmi. Un’altra volta vidi le sue foto appese al muro con le punte di spillo sugli occhi».
Cosa pensò?
«Ero terrorizzata. In seguito, mi spiegarono che è un classico della schizofrenia operare l’autocancellazione di sé. È la prima volta che ne parlo. In certi momenti, quando è più acuto il dolore, ho pensato di scriverne. Ma resisto, so che non è giusto».
Forse sarebbe liberatorio.
«Non ci si libera mai interamente. Qualcosa resta sempre sul fondo. Ma poi ci sono anche le cose belle. Il nonno aveva un’agenzia di spedizioni marittime. Da bambina mi faceva salire sulle navi. E lì avvertivo che la Puglia è una terra di vento e di altrove. Fu in una di quelle circostanze che percepii che la mia storia volgeva a Est. Un giorno il nonno mi portò a bordo del piroscafo La valigia delle Indie e mi raccontò dei favolosi viaggi in Oriente».
Perché poi scelse la Russia?
«Fu grazie all’incontro con Angelo Maria Ripellino, il grande slavista. Assistetti a una sua prima lezione all’Università di Roma. Non andò un granché bene. C’erano almeno 500 persone. Cominciai a sudare. Soffrivo di claustrofobia. Il disagio crebbe. Uscii di corsa. Eppure...».
Eppure?
«Quell’uomo aveva un’anima speciale. Tornai in seguito ad ascoltarlo. Mi stregò la forza teatrale delle sue lezioni. Le schede colorate che esibiva, agitandole come carte da prestigiatore. Per lui nulla è quello che è, ma ogni cosa rimanda ad altro. Mi aprì la mente. Mi laureai con lui su Andrej Belyi. Andai a Mosca e mal me ne incolse ».
Cosa non funzionò?
«Ci volle del tempo perché mi abituassi a quel mondo. Arrivai con tre compagne dell’università nel 1967. Ci installammo nel convitto dell’Università di Mosca, sulle colline Lenin. Eravamo in piena epoca brezneviana. Il ghiaccio si era esteso alle menti. Il primo grande shock me lo procurò lo scarafaggio: il tarakano fulvo, la blattella germanica come la classificò Linneo. Fu un incubo. Ma compresi quando, finalmente vinto l’orrore e la paura, riuscii a dormire in sua presenza, che ero di casa in Russia».
E che paese trovò?
«Immenso, straordinario, dedito alla sopravvivenza e alla delazione. L’alcol, la vodka in particolare, era il solo vero collante del socialismo realizzato. Pensavo a cosa era stata la Russia, soltanto ai primi del secolo, quando tutto era permesso: il sesso, l’intelligenza, la provocazione. Certe volte telefonavamo di notte, ubriache, a Ripellino: non è più un paese per giovani, gli gridavamo dalla cornetta ».
Però ha conosciuto vecchi interessanti.
«È vero. Il più grande è stato Viktor Shklovkij, strepitoso letterato. Volevo scrivere un libro su di lui. Andai a trovarlo nel 1978-79, durante l’inverno più freddo del secolo. Mi diressi a casa sua. Vidi quest’uomo, piccolo e agitato, che si intratteneva con una troupe televisiva. Cominciò a urlare contro un giovanotto che gli dava ordini su come disporsi davanti alla telecamera: ho lavorato con Pudovkin e con Ejzenštejn, io, cosa vuole insegnarmi? Era molto incavolato. Incline all’ira. A volte sibillino. Ironico: non ho mai avuto talento, come scrittore, il mio è solo un trattenuto furore, mi disse».
Ha conosciuto anche Lilja Brik?
«Andai a trovarla a Mosca, ormai anziana. Fu la musa e compagna di Majakovskij. Sessualmente un vulcano. Collezionava amanti con la facilità con cui noi respiriamo. In più adorava esibirli. Le piaceva farlo strano».
In che senso?
«Mah, si incontrava con Majakovskij nei bordelli di Mosca. Era una donna scatenata, perfino coraggiosa. Erede di quella stagione senza pudori che fu l’età d’argento. Ma non era una donna geniale. Odiava la Achmatova, lei sì talento assoluto. Un odio che la poetessa contraccambiava con la rabbia di chi aveva sofferto profondamente».
Cos’è l’amore?
«Non lo so, esistono le storie d’amore».
E le sue?
«Belle, complicate, deludenti, a volte dolorose. Quella più importante fu con Giovanni Raboni. Iniziò nel 1970, lavoravo alla Garzanti. Ci sposammo. Ci siamo lasciati nel 1981. Fu una strana miscela: io sgangherata, venivo da Brindisi e poi da Roma e lui a modo, con la sua moralità milanese. Mi colpì l’uomo: bello e discreto. Penso che i veri amori, come i poeti, vanno protetti».
Da cosa?
«Dalla stanchezza e dalle maldicenze del tempo. Con Giovanni passammo un bel periodo a Praga. E pensare che gli anni della normalizzazione furono più neri di quelli della stagnazione sovietica. Eppure, la città dagli anni Trenta in poi fu un tesoro di cultura russa. Conoscemmo persone interessanti, fra cui Kundera. Diventammo amici. A noi chiedeva se doveva andarsene, emigrare. E poi nel 1975 si trasferì in Francia. Rimasi affascinata dai suoi primi libri. Tradussi Il valzer degli addii e lo diedi alla Mondadori. Ricordo un imbarazzato Vittorio Sereni che mi fece vedere il giudizio di lettura che ne era stato dato: il libro fa schifo! Era un libro bellissimo che in seguito sarebbe uscito per Bompiani».
Lei è stata un ponte per la cultura slava.
«Una volta Pasolini mi scrisse ringraziandomi di avergli fatto conoscere quel poeta meraviglioso che è Osip Mandels’shtam».
Vi vedevate?
«Alcune volte. Di solito si cenava alla Carbonara. Gli ho voluto bene. Voleva sapere di Tolstoj e della sua fuga del 1910, l’anno in cui lo scrittore russo morì. Parlava pochissimo. La sua morte mi sorprese e mi addolorò. L’appresi che ero con Giovanni a Parigi. Tornammo a Milano. Frastornati da quell’evento».
Chi altri incontrava in quegli anni?
«Naturalmente Laura Betti, che frequentai nel suo periodo buono. Poi Elsa Morante. Fu vera amicizia tra noi. Ma non per questioni letterarie. Piuttosto per l’amore che avevamo per i gatti. E poi Moravia ».
Molto amato in Urss.
«Meno del cantante Robertino e Sofia Loren. Ma insomma un’autorità. Ricordo una cena in suo onore a Mosca al ristorante Sovietskaya, luogo di antiche abboffate per il Komintern. A un certo punto, tra una portata e l’altra, vidi Moravia irrigidirsi, come l’intarsio di una betulla e rimanere in silenzio. Il coro intonò Tuppe tuppe mariscià. Fu un momento surreale».
Oggi impensabile.
«La Russia è diventata un’altra cosa. Ricordo che quando Jurj Andropov era a capo del Kgb disse che avrebbero sconfitto la dissidenza aumentando la produzione di salame».
Metodi poco stalinisti.
«Pensava così di combattere la corruzione: cominciando dai gastronom moscoviti».
E oggi?
«Mi dicono i miei amici che a Mosca la corruzione non è più un problema, è un sistema».
E che fanno i suoi amici?
«Vorrebbero andarsene. Non ce la fanno più a stare dove stanno. Mosca, mi pare, ha perso la sua anima. Gli scrittori scrivono trash, pulp, pop. Scimmiottano l’Occidente».
Non ci sono più gli scrittori di una volta?
«Non mi faccia dire banalità».
Lei ha iniziato con Puskin e ora è lì immersa in Majakovskij. Cosa hanno in comune?
«Boh, non lo so. Forse il fatto che entrambi sono morti a 37 anni. E con storie di donne alle spalle».
Si è più risposata?
«La sorprenderò. Sì. Conobbi a Praga negli anni Sessanta un ragazzo. Lo invitai a Roma e lo feci conoscere a Ripellino. Filammo per un po’. Era molto romantico anche se figlio di un pezzo grosso del comunismo. Tornò nel suo paese. Ripellino lo convinse a trasferirsi in Italia. Ma non fece in tempo: quei giorni chiusero le frontiere. Ci perdemmo così di vista. Si chiamava Vladimir Novák».
E a quel punto?
«Passarono gli anni. Mi dimenticai di quella storia. Poi nel 2000 tornai a Praga. L’indomani dovevo incontrare Havel del quale ero amica fin dai tempi di Kundera. Ma Vaclav ebbe un contrattempo. A quel punto, non sapendo cosa fare, mi ricordai di lui, di Vladimir. Provai a rintracciarlo telefonicamente. Feci un numero. Chiesi, emozionata di lui. Sicura dell’inutilità del tentativo. Mi rispose: sono io e sono un uomo vedovo! Il giorno dopo si presentò all’Archivio dell’emigrazione russa, dove stavo facendo delle ricerche, con un grande mazzo di rose. L’anno dopo ci siamo sposati».
E lui che fa nella vita?
«È un artista affermato, un pittore. Abbiamo deciso di non vivere insieme. Di non scegliere una città: Milano o Praga. Ma di vederci, con la giusta frequenza, da me o da lui. O in qualunque posto dove desideriamo essere. È un amore fisso e volatile. Una bella storia, insomma».
Quasi natalizia.
«Non ha nulla di malinconico. Effettivamente mi fa pensare a una storia festosa».