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 2013  dicembre 22 Domenica calendario

NATALE IN CASA VANZINA


Natale in casa Vanzina, scena prima. Una finestra luminosa sui Parioli: è quella da cui si affacciava il padre — il mitico Steno che diresse Sordi e Totò, il regista di Un americano a Roma e di altri cento film — perché da lì osservava i romani, e quando sua moglie gli domandava perché perdesse così il suo tempo rispondeva: “Non vedi che sto lavorando?”. Una lunga libreria, strapiena di libri, videocassette e dvd. Sui mobili, dalle cornici d’argento sorridono le mogli e le figlie. Al centro della stanza, un grande tavolo ovale, sul quale sono meticolosamente ordinate pile di fogli A4, sceneggiature che aspettano (e soprattutto sperano) di diventare la prossima “vanzinata”. È qui che i fratelli Vanzina — Enrico, lo sceneggiatore, e Carlo, il regista — preparano i loro film, in una simbiosi perfetta che si prende le loro giornate. Alle domande del cronista rispondono come se giocassero un doppio al tennis, una io e una tu, senza mai pestarsi i piedi (e allora capisci perché questa coppia dura da quarant’anni).
Eppure è un Natale strano, questo. Nel trentennale dell’uscita di Vacanze di Natale, voi non siete nei cinema: il vostro film uscirà subito dopo Capodanno. Avete voluto prendere le distanze dai cinepanettoni?
Enrico: «Il nome non ci piace, ma il genere esiste. Impossibile negarlo. Il professor Alan O’Leary, che insegna cultura italiana all’università di Leeds, ha scritto un libro, Fenomenologia del cinepanettone. Sostiene che è il fenomeno più forte del cinema italiano contemporaneo. Noi però rispondiamo solo dei nostri. Che non sono cinepanettoni ma commedie all’italiana».
E allora parliamo di ciò di cui potete rispondere. A chi venne l’idea di fare il primo film della serie, Vacanze di Natale?
Enrico: «Dobbiamo fare un passo indietro, perché la nostra vera svolta fu Sapore di mare. Una commedia che nasceva dai ricordi di gioventù, le nostre estati a Castiglioncello. Capimmo che quello che ci aveva emozionato nella vita poteva far ridere il pubblico. Dopo quel film venne da noi Aurelio De Laurentiis: facciamo un film sulla neve, ci disse, per Natale».
Carlo: «Dicemmo subito di sì. Non c’inventavamo niente. Avevamo in mente Vacanze d’inverno, di Camillo Mastrocinque, con Sordi, De Sica e Dorian Gray».
Ma era un’altra cosa. Voi avete cambiato il format, anzi ne avete creato uno che ha fatto scuola. Con quale schema?
Enrico: «Esattamente come avevamo fatto con Sapore di mare, che era il ritratto di una certa gioventù borghese, decidemmo di scattare un’altra foto: quella dell’Italia di allora. Una borghesia che si era arricchita di colpo, che si faceva largo a modo suo, insomma i prodromi dello yuppismo che sarebbe arrivato negli anni Ottanta. Mescolando la satira di costume con una vena romantica e sentimentale molto forte. In poche parole, una vera commedia all’italiana. Quelli che vennero dopo, gli altri film di Natale, sono diventati un’altra cosa».
Sin dal primo film la critica vi ha sparato addosso ma le sale erano sempre strapiene. E voi avete scelto il pubblico.
Enrico: «Già, e alla fine Vacanze di Natale è diventato un cult movie. Per i vent’anni del film, nel 2003, organizzammo una proiezione all’Anica. Vennero da tutta Italia, come a un concerto di Vasco Rossi. Ricordavano tutte le battute, e le gridavano ad alta voce prima che le pronunciassero gli attori. C’era persino un matto che aveva imparato a memoria il numero di targa della macchina di Jerry Calà. Perché funzionò, quel genere? Perché in vacanza gli italiani fingono sempre. Fingono di non essere sposati. Vanno nei posti che non si potrebbero permettere. Vogliono far credere di essere diversi. E inconsapevolmente diventano comici. E poi perché a Natale gli italiani preferiscono una cosa nazionale che non una cosa internazionale. Vedere un film in cui c’è uno che parla barese o parla napoletano, che assomiglia al tuo compagno di scuola, che mangia come te, che ti fa ridere sulle cose della tua vita di tutti i giorni, ecco, questo è l’unico modo per sentirsi ancora italiani, a Natale. E questo piace, piace moltissimo. Su questo terreno gli americani non possono combattere».
E allora ditemi quali sono le caratteristiche della “vanzinata” autentica, a denominazione di origine controllata.
Enrico: «Secondo i fan club di Vacanze di Natale, deve avere due caratteristiche fondamentali. Primo, essere ambientato sulla neve. Secondo, avere come protagonista la famiglia Covelli. Io sono abbastanza d’accordo. Se la teoria è valida, i veri film di Natale, dopo Vacanze di Natale, sono solo tre o quattro. E invece ne sono usciti molti di più. Non nostri, però».
È nato il filone dei “cinepanettoni”. Vi dà fastidio, quando li chiamano così?
Enrico: «Mi dà un po’ fastidio perché paragona un film a un prodotto da supermercato. In realtà noi, con Aurelio De Laurentiis, all’inizio facevamo delle commedie di costume, sempre diverse. Aurelio, poi, quando abbiamo deciso di passare la mano, ha serializzato il Natale. Lui ha il merito di averci creduto, facendone un genere. Di più: ha fatto un’occupazione militare del film di Natale».
Carlo: «Aurelio, dopo di noi, invece di continuare la commedia di costume, ha scelto lo specialista dei film comici, Neri Parenti. E ha trasformato il film di Natale in un incrocio tra un cartone animato, Fantozzi e Jerry Lewis. Scegliendo ogni volta un posto esotico».
E riempiendo i cast con i personaggi televisivi del momento...
Carlo: «Già, ma facendo far loro le cose più scorrette. Una volta mi disse: “Non dirlo a nessuno, ma sto trattando con Monica Lewinsky”. Immagino che l’idea fosse quella di farle fare a De Sica, nel film, quello che l’aveva resa celebre alla Casa Bianca. Industrialmente è stato un genio, però era un altro genere. Ricordo quando andammo a vedere Natale in India. C’era una scena in cui Enzo Salvi, detto Er Cipolla, canticchiava il seguente motivetto: “Ja-maica, Ja-mai-ca, già-mai-cacato- er-cazzo!”. Ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: ma cosa c’entriamo noi con tutto questo? Allora ho capito che si era toccato il fondo».
L’Italia di oggi è più volgare di quella di Steno, di Totò, di Vittorio De Sica, di Alberto Sordi?
Enrico: «Certo che sì. All’estero hanno capito che la forza della borghesia sta nella cultura. La borghesia italiana invece ha creduto solo nei soldi. Purtroppo».
Carlo: «Noi questo involgarimento lo abbiamo raccontato, nei nostri film. Vacanze di Natale era impietoso, sulla borghesia romana. Io odio la volgarità. Invece la critica ha scritto che ne eravamo i cantori. La verità è che abbiamo pagato il fatto di aver avuto successo».
Piacque a vostro padre, a Steno, Vacanze di Natale?
Enrico: «Sì, era molto contento. Una volta mi disse: “Non ho mai visto il cinema Adriano così pieno”. Però ci diceva anche che il cinema è pericoloso, “se sbagli tre film sei finito”. Aveva ragione». Ma c’è un film di cui vi siete pentiti? Il peggiore, quello che avreste voluto non aver mai girato?
Carlo: «Nessun dubbio, Banzai!. Dopo Io no spik inglish, che era stato un successo, Villaggio voleva andare in Giappone a mangiare sushi, sashimi e tempura. E così ci inventammo quel film. Terribile. Anche nei ricordi delle riprese. Ancora inorridisco quando penso a Villaggio che si presenta seminudo nel ristorante più elegante di Tokyo con addosso solo il costume da lottatore di sumo. Quelli si inchinavano, ma erano allibiti».
Esiste, un meccanismo essenziale della comicità? E qual è, per voi?
Enrico: «È semplice. Tu prendi una situazione di normalità, e apri una crepa: questo fa ridere».
Carlo: «Poi c’è l’equivoco. Con Proietti, che è un grande, abbiamo girato un pezzo sull’attore smemorato e sordo che non capisce il suggeritore e storpia ogni battuta. Una risata inarrestabile».
Chi vorreste, in un vostro film?
Enrico: «Carlo Verdone».
Carlo: «E Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Nanni Moretti, Kim Rossi Stuart…».
Qual è, oggi, l’attrice più bella del cinema italiano?
Carlo: «Vanessa Hessler. E Kasia Smutniak ».
E il personaggio che fa ridere più di tutti?
Carlo: «Fiorello. Insieme a Gigi Proietti, si capisce».
Un’ultima domanda. In politica, con chi stanno i Vanzina?
Enrico: «Come diceva Malagodi, sono più a sinistra della destra e più a destra della sinistra. Sono liberale, insomma. Di centro».
Carlo: «Io invece ho avuto simpatia per la sinistra».
Ha avuto?
«Mi dà fastidio la voglia di appartenere a un clan. Ma non sarò mai di destra: se potessero incenerire tutto ciò che è cultura e spettacolo, loro lo farebbero subito... »