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 2013  dicembre 23 Lunedì calendario

C’ERA UNA VOLTA IL CONCESSIONARIO D’AUTO

Il sorriso di cortesia è perfetto, la sala è tirata a lucido, le auto brillano alla luce del sole del mattino. Quando il venditore viene incontro a chiedere in che modo può essere utile, i suoi passi rimbombano nell’autosalone completamente vuoto. Il sorriso rimane stampato ancora un po’ e scema solo quando si cominciano a fare domande su come vanno gli affari. «Preferisco non parlarne», è una risposta comune, ma qualcuno alla fine si lascia andare e gli animi si accendono. Magari alcuni dei venditori di auto si sono uniti, fisicamente o spiritualmente, alle proteste dei forconi che sono spuntate come dal niente in Italia.
Perché tra le categorie colpite dalla crisi e spogliate dalla loro precedente aurea di opulenza c’è senz’altro quella dei concessionari. Il crollo delle immatricolazioni di auto è cosa nota: -42%, se si confrontano i primi dieci mesi del 2013 con l’analogo periodo del 2005, con cali di oltre il 60% quasi tutte le regioni del Sud, poco meno nel Lazio e gravi anche nel Nord. Fa eccezione il Piemonte (-18%), mentre Lombardia e Veneto registrano discese di oltre 40 punti percentuali.
Meno discussi sono altri dati, conseguenza dei primi. Le imprese che vendono auto erano quasi 3.500 nel 2002, oggi sono quasi la metà, 2.011, in mano a 1.636 imprenditori, secondo la società di ricerca Quintegia. I mandati, cioè le concessioni date dai produttori alle imprese che vendono, sono scesi relativamente poco, nell’ordine del 10 per cento, mentre un autosalone su cinque è sparito e nel 2017 i 5.011 di oggi scenderanno a 4.300 circa.
Altri numeri sono apparentemente incredibili. A quanto ammontano i margini per la vendita di un’auto? In media 20 euro, ha scritto la società di ricerca Alixpartner, se si considera il solo “ferro”. I concessionari però non hanno smentito, così come Tommaso Bortolomiol, analista e partner di Quintegia: «Non siamo distantissimi dalla realtà. Siamo nell’ordine delle centinaia di euro nei casi più virtuosi, se parliamo del ferro. Il discorso cambia con i finanziamenti e la vendita di assicurazioni, come kasko, furto e incendio, e le garanzie estese».
Cosa possono fare i concessionari per non chiudere? «La risposta principale alla crisi, che è venuta in genere con notevole ritardo, è stato spostare vendita da nuovo a usato e post vendita. Questa è una reazione che da anni con il nostro centro ricerche abbiamo cercato di richiamare, perché oggi un concessionario che non si sviluppa su usato e post vendita non riesce a stare in piedi. Oggi molti si stanno apprestando ad andare in questa direzione». Chi si è mosso prima come accade spesso ha guadagnato oggi una posizione più affermata, su tre fronti, argomenta Bortolomiol: «sa dove approvvigionarsi di auto usate, sa come vendere auto difficili da vendere mercato, come quelle di grandi cilindrata, e sa come vendere online». Chi performa meglio sull’usato è chi ha stipulato accordi con case d’asta di auto – strutture dedicate a organizzare aste online di auto usate da dismissioni di flotte di noleggiatori o flotte aziendali -, o con le divisioni remarketing delle case automobilistiche, che gestiscono flotte aziendali del gruppo. Oppure chi va a comprare lotti di auto molto richieste nella propria zona. Tipicamente le auto usate più apprezzate sono fresche, semestrali o annuali.
A Napoli il simbolo di un mercato dell’automobile impantanato nella crisi è via Galileo Ferraris, tra piazza Garibaldi e via Argine: a due passi dall’autostrada e a tre dal centro cittadino. Una volta qui sorgevano le concessionarie auto: Fiat, Renault, Opel. Erano tantissime, sempre aperte ed affollate. Le marche più costose, invece, si trovavano vicino all’aeroporto di Capodichino. Negli anni ’90, questo era il centro della compravendita delle automobili: le vedevi uscire dalle porte laterali dei garage nuove fiammanti. Oggi, invece, via Galileo Ferraris è vuota, qualche concessionaria che è stata riconvertita in supermercato, seppure anche quel tipo di commercio vada a rilento. L’automobile non è il futuro. Non lo è per i pochi che ancora, in questa strada di Napoli, continuano a rivenderla. Pochi hanno voglia di parlare, ma i temi alla fine emergono. I primi nemici delle concessionarie sono i fornitori, raccontano, anticipando un refrain che si sentirà da Nord a Sud.
Via Salaria è la Montenapoleone romana dell’automobile. Qui, a due passi dal Grande Raccordo Anulare, ci sono le succursali di Bmw e Mercedes, i rivenditori esclusivi di Porsche e Lamborghini, ma anche i concessionari storici che rispondono al nome di Rosati, Gruppo Colaneri, Autoimport, quelli che per decenni hanno dettato legge nella Capitale con boom di filiali e campagne marketing. Oggi, davanti ad autosaloni mezzi vuoti e apparati elefantiaci da snellire, la parola d’ordine è resistere. Spiega a Linkiesta Angelo Colaneri, capostipite di un’azienda attiva da oltre cinquant’anni: «Roma era il mercato più grande d’Italia, oggi il più complicato. Qui si concentra la maggior parte dei dipendenti pubblici che col potere d’acquisto sempre più basso ritarda l’acquisto di una nuova auto, piuttosto ripara la vecchia. Aggiunga pure che abbiamo un’associazione di categoria (Federauto) che non ci rappresenta e le banche che non fanno il loro dovere».
Lo sfogo più grande però, deve ancora arrivare. «Le case automobilistiche sono allo stesso tempo i nostri fornitori e i peggiori nemici, come ti muovi ti fregano. Usano l’escamotage dell’autofinanziamento e fanno pagare le auto in anticipo al rivenditore, lanciano campagne promozionali con gli sconti sulle spalle del concessionario che poi deve produrre una serie di pezzi di carta e, se è bravo, riprende i soldi dopo quattro mesi. Nel mezzo ci sono i costi sempre più alti del fare impresa in una grande città». Colaneri è concessionario in esclusiva per Kia e Hyundai, ma anche rivenditore multimarca. Poi c’è l’usato: «Una zavorra, quando si immatricola poco c’è poco usato e i prezzi sono sempre più bassi». Senza contare che le auto di grossa cilindrata «riusciamo a venderle solo a prezzi stracciati oppure all’estero, via internet. La gente prima di comprarle ci pensa due volte, ha paura dei controlli e del superbollo».
La ricetta anticrisi passa per la razionalizzazione di un ex impero. «Avevamo centomila metri quadri di spazi in otto location. Ora manteniamo due sedi e alle auto dedichiamo tremila metri quadri, il resto cerchiamo di affittarlo ad altre attività imprenditoriali. Così ci rimettiamo in gioco». Al fianco delle autosalone oggi c’è il Prènatal, punto vendita di prodotti per l’infanzia che ha assorbito anche il personale in esubero. L’insolito abbinamento auto-bebè campeggia anche sull’insegna del concessionario e nel sito internet. Altri accordi arriveranno con catene americane e bar, per la creazione di un centro servizi parallelo all’attività delle quattro ruote. Il patron sospira, ma prende atto: «Una volta vendevamo 12.000 auto e su ognuna guadagnavamo 600 euro, oggi puntiamo a smerciarne 3.000 guadagnando 250. Vogliamo curare la nostra fetta, salvaguardando il post-vendita e la forza lavoro».
Qualche metro più in là, ancora via Salaria. «C‘è la crisi? Me lo dica lei, guardi l’autosalone». Che in effetti è pieno di macchine, luci e scrivanie, ma i clienti si contano sulle dita di una mano. «Si spera che qualcosa cambi, intanto un mercato depresso ha fatto la selezione dei concessionari». Chi parla, dietro richiesta di anonimato, è il responsabile commerciale di uno dei gruppi leader nella Capitale, con un avamposto anche nell’ex Bengodi di via Salaria. «Siamo stati costretti ad una ristrutturazione, abbiamo chiuso i punti vendita il cui rapporto tra costi e redditività non era più sostenibile. Le politiche commerciali sempre più esasperanti spingono a tagliare i costi fissi, che nel nostro caso sono gli impianti».
Con Linkiesta il dirigente sgrana il rosario dei problemi: «Le case automobilistiche sono stressate e diventano stressanti coi venditori, si fanno operazioni di prezzo tirate e offerte a svantaggio della redditività, ma non siamo completamente abbandonati, le case cercano azioni per darci supporto nonostante i rapporti non siano più quelli di un tempo. Quando le cose vanno male, vanno male per tutti, brand e concessionari». Il dito resta puntato contro le banche: «Ti tolgono il fido dall’oggi al domani e in un attimo non puoi più lavorare con la casa mandante». Guardando al futuro, la strategia non può che cambiare: «Le aperture nei giorni festivi non hanno più senso, a meno che non riguardino i lanci di nuovi modelli». Il mito dell’autosalone, cattedrale di sogni e scampagnate familiari, è tramontato da un pezzo. Oggi i concessionari romani si rifanno il look su internet e studiano il posizionamento su Google con vetrine digitali sempre più accurate. «Per un cliente su due il web è la tappa primaria, chi arriva in autosalone è già informato e non lo si può fregare».
A Milano vie storiche per la vendita di auto sono diverse, tra cui spiccano viale Certosa (dove nel 2011 ha chiuso con clamore la grande rivendita del gruppo Volkswagen-Audi Car Comauto), viale Monza e soprattutto viale Fulvio Testi. Quest’ultima parte dalla circonvallazione e porta a Sesto San Giovanni. Lungo il percorso e nelle vie vicine si contano una dozzina di concessionari, di tutte le marche principali. Nella maggior parte dei casi i segni della crisi sono opportunamente celati. In quattro saloni (Sagam – Volkswagen e Audi -, Spotorno – Toyota e Lexus -, Renord – Renault e Dacia -, Peugeot Milano), i titolari non sono stati intervistabili, né in sede né con diverse telefonate nei giorni successivi.
Massimo Fossati, “center manager” della concessionaria Venus (Mercedes e Smart), invece, decide di aprire l’ufficio. «I margini sono ridotti all’osso, per tre motivi – esordisce - : la riduzione del mercato, la concorrenza sempre più spinta tra i brand e la necessità continua di fare promozioni». Il “ferro”, cioè la semplice vendita dei un auto, non rende più nulla. «Prima il margine era dell’8-9%, adesso è nell’ordine del 2 per cento, quando va bene». Gli investimenti, di conseguenza, sono impossibili. «Abbiamo già dovuto ridurre il personale di un terzo, mentre i budget per il marketing è semplicemente azzerato». E i guadagni sull’estensione di garanzia e sul post-vendita sono più sulla carta che reali, spiega, perché sono cifre che incidono molto sul prezzo d’acquisto e la loro vendita non è semplice. Finito l’elenco dei problemi? No: «ora anche le finanziarie a noi legate fanno molti meno prestiti rispetto a prima», dice. Poi ci sono i rapporti con i fornitori. «Il produttore ha la sua politica, il concessionario o si adegua o si adegua», è la sintesi. «I concessionari sono inondati di macchine, mensilmente ti arrivano le novità. Non puoi pianificare una tua strategia, le politiche se va bene sono trimestrali. Mandano nuovi modelli per mantenere le quote di mercato e i concessionari sono pressati perché si adeguino a questa politica. Quindi i margini si assottigliano».
Reagire, però, è possibile, seppure a costo di scelte molto dure. Come licenziare, rivedere tutte le forniture, andare allo scontro con i produttori. «In questo momento i concessionari pagano le scelte del passato. Chi si è strutturato cinque anni fa sente meno la crisi», racconta a Linkiesta Sabrina Morè, collaboratrice amministratore di concessionaria Progresso Milano, sempre in zona Fulvio Testi. «Noi 3-4 anni fa abbiamo fatto un’attenta gestione dei costi, sia fissi che variabili. Abbiamo il 50% del personale in meno. Una decisione difficile, attuata in modo graduale. Ora siamo circa 30. Ma se non avessimo tagliato, non saremmo qua, così come se avessimo tagliato male: i costi in una concessionaria sono difficili da individuare e gestire».
Poi è arrivata la guerra con la Fiat, di cui sono concessionari. «Un concessionario per sopravvivere ha bisogno di del premio variabile – spiega -. Se non si raggiungono gli obiettivi, si perdono i premi. Noi però abbiamo scelto di ignorare i variabili. Questo ci ha permesso di non ordinare tutto quello che imponevano. Tutto cioò si può fare si può fare solo se non si improvvisa. La maggior parte dei concessionari subisce il ricatto. Quelli più grandi non hanno alternative, oggi sembra sopravvivere meglio il piccolo».
Per aumentare i ricavi, oltre che limitare i danni, le parole chiave sono due: usato e web. «Sull’usato i margini superiori al 2% del nuovo, ma bisogna cercare di trovare più materiale possibile – continua Sabrina Morè -. Noi ci riforniamo da diversi fornitori, non da aste online, e cerchiamo di vendere auto categorie superiori a quelle presidiate dalla Fiat. Vendiamo la maggior parte delle auto di fascia alta via internet. Mettiamo gli annunci su diversi siti e abbiamo clienti che vengono da tutta Italia».