Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  dicembre 22 Domenica calendario

LA NUOVA CINA È CAPITALISTA MA IL VERO LEADER RESTA MAO


Sfoglia, sfoglia, sfoglia, mille volte mille Mao Zedong con sopra il numero 100. Esposto alla Shanghai Art Fair tenutasi il mese scorso c’era un’opera dell’artista multimediale Guang Shengzhi stranamente ipnotico: intitolato «Un milione», è un video di un’ora e venti, in cui due mani sfogliano una spessa mazzetta di rosse banconote da 100 yuan (12 euro, la banconota di maggior valore in Cina). L’unico sonoro è il frusciare delle banconote, mostrando sempre la parte in cui sono decorate dal tondo volto di Mao Zedong.
Nel pieno boom del «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi» con cui il Partito definisce l’attuale fase della storia economica cinese, il volto dell’uomo che aveva brevemente accarezzato il sogno di eliminare il denaro (come fece per un periodo Pol Pot, il capo dei khmer rossi che a lui s’ispirava) è inseparabile dal contante: unica eccezione, il minuscolo jiao, che vale meno di mezzo centesimo. Del resto, impossibile sfuggire al volto del Grande Timoniere: a Piazza Tiananmen campeggia un suo ritratto, sostituito ogni tanto da uno nuovo, affinché sia sempre pulito e lustro. Nel cuore del cuore della capitale cinese vi è il mausoleo che ne contiene i resti imbalsamati (a meno che non sia vero quanto raccontato dal suo medico, Li Zhisui, che l’imbalsamazione non riuscì e che le masse oggi sfilano davanti alla statua di cera del Grande Timoniere), vicino al quale ci sono le bancarelle che vendono souvenir con il volto di Mao su tutto – posacenere e magliette, cappellini, spille, bicchieri.
Ora che si avvicina il 120° anniversario della nascita del fondatore della Repubblica Popolare e si preparano feste ovunque, la Cina si trova a fare curiosi equilibrismi. Da un lato, Xi Jinping, il presidente, spinge le riforme economiche; e nel contempo non smette di rifarsi ai detti del predecessore, riportando in auge vecchi slogan e costumi: dalle autocritiche pubbliche forzate della Rivoluzione Culturale (che oggi però sono teletrasmesse), al fiorir di retorica sul ruolo guida del Partito, a cui tutti, dai giudici ai giornalisti, devono giurare fedeltà. «Seguire la linea di massa!», ammonisce, e «rettificare il Partito!» per epurarlo dalla corruzione.
Inizialmente le celebrazioni si annunciavano stravaganti, con milioni di yuan stanziati per la grande festa; poi, per sobrietà, Xi ha ordinato che una commemorazione «austera, solenne e pratica». Non di meno, la città di Shenzhen, testa d’ariete delle riforme di mercato che hanno portato alla Cina odierna, ospita in questi giorni una statua di Mao in oro e pietre preziose del valore di 100 milioni di yuan (si pensa che gli anonimi committenti siano degli industriali arricchitisi con le riforme e aperture di Deng Xiaoping, che Mao avrebbe trovato raccapriccianti). Presto l’installazione si sposterà nella città di Shaoshan che 120 anni fa era un grosso villaggio, dove, in una famiglia di ricchi contadini, nacque Mao Zedong. Ancora oggi più di metà degli abitanti di cognome fa «Mao», giustificando gli innumerevoli ristoranti «da Mao» dove si preparano piatti indiavolati di peperoncino. Il Grande Timoniere, da bravo nativo della regione dello Hunan, amava la cucina piccante. Una cucina rustica, pesante, dove regnano carne di maiale e i brasati in salse scure e unte, e che tutti spacciano come i piatti preferiti del fu leader. Che aveva un po’ di pancetta anche se durante il suo «Grande Balzo in avanti» morirono di fame dai 30 ai 60 milioni di persone. Senza Mao, Shaoshan sarebbe nulla. Con Mao, e il museo della sua casa natale Shaoshan è meta perenne del «Turismo Rosso», dove signorotti di provincia e quadri di Partito arricchiti vengono a bruciare incenso alla sua memoria.
Né a Shaoshan, né altrove in Cina, è permesso dibattere in modo approfondito di quel periodo buio degli Anni 50, o di quello, altrettanto buio, della Rivoluzione culturale: ci sono libri e romanzi che compaiono, occasionali articoli su giornali, ma nulla può andare troppo in là. La legittimità del Partito comunista viene da Mao Zedong, e in uno dei suoi primi discorsi da presidente Xi Jinping ha tagliato corto a ogni velleità sul rivedere il ruolo e l’operato dell’ex-presidente, morto nel 1978. Poco dopo la sua scomparsa il Partito decise che Mao aveva operato in modo giusto al 70%, in modo sbagliato al 30%, e da allora il giudizio e le riflessioni se la vedono con questa camicia di forza.
Il Grande Balzo è ancora studiato come un periodo di «catastrofi naturali» che portarono alla carestia, con appena poche parole sugli errori maoisti causa del disastro. Poco meglio per la Rivoluzione culturale, o, ancora prima, per le violente purghe con cui il Partito ha iniziato e proseguito la sua storia. Una memoria selettiva che consente la leggenda: qui un tempio, qui un altare, qui un’immagine che penzola dallo specchietto retrovisore per proteggere dagli incidenti d’auto. E le infinite conversazioni casuali, in treno, al mercato, con chi ti ripete che «a quei tempi, non c’era corruzione», esprimendo nostalgia per un passato che non è mai esistito.