Tonia Mastrobuoni, La Stampa 22/12/2013, 22 dicembre 2013
L’ITALIA È AL PUNTO DI SVOLTA USCIRE DALL’EURO? UN INCUBO
Peter Praet è un uomo altissimo dall’aria bonaria. Alle otto di mattina, la luce nel suo ufficio al 34esimo piano dell’Eurotower è ancora grigia: d’inverno, Francoforte fatica ad emergere dalla notte. Il capoeconomista della Banca centrale europea sta sottolineando articoli di giornale in maniche di camicia, con aria contrariata. I guardiani della moneta unica sono ormai il bersaglio fisso degli anti-euro: così, per la prima volta, un membro del board ha deciso di rispondere ai loro deliri. Altrettanto eccezionalmente, l’economista belga ha accettato in quest’intervista di parlare molto dell’Italia.
Praet, l’Italia è fuori alla recessione?
«Sì, l’Italia sembra stia uscendo dalla recessione. Penso che questo sia molto importante: gli sforzi pagano e c’è speranza. Gli indici della fiducia delle imprese stanno salendo, si osserva un importante cambio di direzione. Ma il punto di svolta è ancora molto fragile, siamo appena agli inizi. Ci sono rischi al ribasso, soprattutto se si fermano le riforme strutturali. Molte imprese dicono che la situazione migliora, le riforme si stanno realizzando, ma non sono ancora pronti ad investire. Sono in attesa».
Però stiamo emergendo da una crisi che ha spazzato via un quarto della produzione industriale.
«In Italia c’è stata una forte contrazione degli investimenti produttivi. Per darle un’idea: gli investimenti nell’euro area sono caduti del 20% dall’inizio della crisi, ma in Italia di quasi il 30%. Pensiamo che nel 2014 la spesa per investimenti inizierà a riprendersi. In questa fase di recupero, la Bce sarà molto attenta. E se l’offerta di credito si restringerà e minaccerà la ripresa, saremo pronti ad agire. Faremo attenzione a che le restrizioni del credito non inibiscano il recupero degli investimenti».
In Italia, come nel resto d’Europa, stanno crescendo i movimenti anti-euro. Voi “guardiani” della moneta unica non siete preoccupati?
«La domanda fondamentale è: abbiamo bisogno di più o meno Europa? È chiaro che avevamo previsto troppo poca Europa per la gestione delle crisi. I fondi salva-Stati e l’Unione bancaria, quindi, sono enormi conquiste. Il nuovo assetto istituzionale non è ancora completo: lo sarà col tempo».
Come rispondete a chi propone l’uscita dall’euro come un’alternativa valida?
«Non ha senso discutere di un “piano B”. Inoltre, adesso che abbiamo stabilizzato l’euro, la discussione sull’uscita dalla moneta unica non riflette la realtà. L’euro è irreversibile. Quelli che sognano di un mondo prima dell’euro tendono a dimenticarsi com’era. In Italia forse vi ricorderete le ripetute svalutazioni competitive – che erano anche una conseguenza della perdita di competitività causata da un’inflazione eccessiva – la volatilità del cambio, gli interessi sui debiti a due cifre, e un’inflazione che era appunto più alta che in qualsiasi altro Paese e che si mangiava il potere d’acquisto di salari e pensioni. Dovreste ricordarvi di questo».
E se volessimo correre questo rischio?
«Anche se voleste prendervi il rischio di cambiare la moneta: potete immaginarvi le conseguenze dell’incertezza su tutti i contratti denominati in euro? Su tutti i debiti, i contratti, a livello privato e pubblico? Chi paga cosa, con che valuta, e quando? Finireste in un incubo di dispute legali. E anche se fosse permesso saldare i propri debiti in euro nella nuova lira, potete immaginare quanto sarebbe oneroso per il debitore ripagare il suo debito in una nuova valuta che si sarebbe nel frattempo drammaticamente svalutata contro l’euro? La verità è che abbiamo bisogno di fiducia e stabilità, in Europa. Le soluzioni monetarie non sono mai soluzioni vere. Dovreste credere nelle lezioni della storia».
Tornando alla situazione attuale: che evoluzione vede, nel credito?
«Il problema principale sono i prestiti alle piccole e medie imprese. Quelle più grandi vanno direttamente sul mercato, compreso attraverso corporate bonds, e questo tipo di mercato sta andando bene sia dal punto di vista dei premi sia da quello dei volumi. Abbiamo anche osservato che le aziende dell’area dell’euro hanno accumulato più di due mila miliardi di liquidità, che riflettono soprattutto la tendenza al risparmio prudenziale e la riluttanza ad investire. Le imprese più grandi sono in una posizione migliore di quelle piccole, soprattutto in paesi come l’Italia».
Cosa suggerisce di fare?
«Contrariamente alla maggior parte dei paesi dell’eurozona, l’Italia ha una struttura del mercato industriale duale: da una parte una miriade di piccolissime imprese, dall’altra un numero ristretto di aziende grandi o molto grandi. Non potete sfuggire alla questione di fondo: soffrite di un problema strutturale. Il mercato del lavoro ha bisogno di una maggiore flessibilità. Le leggi del mercato del lavoro dovrebbero facilitare – e non ostacolare – la capacità delle aziende di utilizzare la forza lavoro nel modo più efficiente possibile. Più in generale, la competitività e l’attrattività di un paese come destinazione di investimenti stranieri dipende da “quanto è facile fare affari”, dunque dalla burocrazia, dalla capacità del sistema giudiziario di fare valere le leggi, dalla governance del paese in generale».
È solo una questione di leggi sul lavoro o c’è altro che limita la competitività?
«Anche il costo del lavoro è troppo alto. Non significa che i salari siano troppo alti – di fatto sono in media bassi, rispetto a molti altri Paesi. Il problema è che la produttività è cresciuta troppo poco. Tra i paesi finiti sotto pressione, l’Italia è l’unico dove la competitività del costo del lavoro non è aumentata».
Com’è la situazione dei conti?
«Anche se sta crescendo, il debito ha una traiettoria di medio termine che è molto migliorata, grazie ai deficit ridotti. Per mantenerlo su un sentiero sostenibile, è essenziale che il governo mantenga i suoi impegni: non vi potete permettere alcun cedimento, sui conti. Esempio: per ottenere un debito del 100% nel 2025, avreste bisogno, a partire dal 2016, di un avanzo primario del 4,5% del Pil. È possibile, e altri paesi ci sono riusciti, ma richiede sforzo e impegno. Da questo punto di vista, Fiscal compact inserito nella vostra costituzione è una grande conquista»
Molti hanno avanzato dubbi sull’austerità, che in alcuni paesi ha aggravato la recessione.
«L’impatto del consolidamento dei conti dipende da come lo costruisci, non solo dunque se aumenti le tasse o tagli le spese, ma anche quali tasse aumenti e quali spese tagli. In Italia fino ad oggi vi siete focalizzati soprattutto sulle tasse, poco sulle spese».