Aldo Grasso, Corriere della Sera 21/12/2013, 21 dicembre 2013
PERFETTE REGOLE DEL GIOCO A «DOWNTON ABBEY»
Non ci stancheremo mai di parlare di «Downton Abbey», giunto intanto in Italia alla terza edizione, una felice congiunzione di sceneggiatura, recitazione e ambientazione (Rete4, giovedì, ore 21.20). Con una successione di piccoli colpi di scena (l’ultimo è che Lord Grantham ha avuto un tracollo finanziario per una speculazione in Borsa avventata e probabilmente dovrà vendere il castello), mirabilmente graduati dai flutti del tempo e della narrazione, lo showrunner Julian Fellowes scompone il quadro di una supposta normalità tardo-vittoriana e la ricompone in un labirinto di complicazioni e di pregiudizi.
Siamo nella primavera del 1920. La madre di Cora (Shirley MacLaine) arriva a Downton per il matrimonio di Lady Mary e Matthew, e crea non poche tensioni, con la sua spigliatezza americana resa ancora più vivida dagli stanchi rituali della campagna inglese. Il gioco verticale tra il «sopra» e il «sotto» (upstairs and downstairs), tra l’aristocrazia che celebra i suoi ultimi fasti e la servitù che sta prendendo coscienza (il capolavoro assoluto di riferimento è La Règle du jeu di Jean Renoir), tra codici comportamentali (a Downton Abbey anche le sguattere ne hanno uno) e codici linguistici. Le parole che più ricorrono sono «decoro», «indole», «tradizione».
I giovani tentano di trovare una loro identità, rivelando furori ideologici e grettezze finanziarie, ma tutto ruota ancora attorno alle due grandi vecchie, Martha e Lady Violet, così lontane e così vicine (è di Lady Violet l’aforisma da tenere a mente: «Niente garantisce il successo come l’eccesso»).
«Downton Abbey» (in Inghilterra siamo già alla quarta stagione) ci viene incontro come un imponente maniero che respira, desidera, abbandonato alle sue cerimonie, ai suoi capricci, ai suoi rancori, finché tutti le storie si sciolgono nelle regole del gioco.