Sergio Romano, Corriere della Sera 21/12/2013, 21 dicembre 2013
PERCHÉ MOLTI SUD-TIROLESI SI SENTONO TEDESCHI, NON AUSTRIACI
Ho letto recentemente la bella biografia di Lilli Gruber (L’Eredità, edito da Rizzoli). Mi ha colpito che sia la bisnonna Rosa, personaggio centrale del bel libro, sia lei stessa si sentissero e si sentano tedesche. Mi chiedo: perché non austriache? Ancora oggi si parla di Tirolo austriaco quando si fa riferimento a quella regione.
Guido Fava
guidofava@libero.it
Cara Fava,
Soltanto Lilli Gruber può rispondere alla sua domanda. Per quanto mi concerne posso dirle soltanto che i sentimenti della famiglia Gruber non mi sorprendono. Ho vissuto a Innsbruck per parecchi mesi negli anni Cinquanta e non ho mai avuto l’impressione che i sentimenti dei tirolesi per Vienna fossero radicalmente diversi da quelli che provavano per Roma. Avevano tollerato l’imperatore perché era duca del Tirolo, e diffidavano dei «welschen» (la parola con cui vengono definiti gli italiani e, più generalmente, gli stranieri di origine latina) molto più di quanto non avessero diffidato dell’apparato statale austro-ungarico. Ma avevano la loro patria, la loro lingua, le loro tradizioni religiose, la loro storia, i loro eroi e persino un inno nazionale dedicato alla memoria di Andreas Hofer, fucilato dai francesi a Mantova nel gennaio 1810 durante le guerre napoleoniche.
Quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, il 24 maggio 1915, gli Schützen (una sorta di milizia territoriale) non aspettarono la cartolina-precetto. Presero il loro fucile, indossarono le loro brache, calzarono i loro scarponi, accettarono la giubba d’ordinanza fornita dai distretti miliari e andarono a difendere i loro monti. Non so se la tradizione sia sopravvissuta, ma nel periodo del mio soggiorno a Innsbruck assistetti alla parata con cui i loro figli e nipoti celebravano orgogliosamente ogni anno la ricorrenza. Poco importava ai tirolesi quali fossero in quella giornata i sentimenti di Vienna, Linz o Salisburgo. Ricordavano con orgoglio la «loro guerra»: una guerra che erano convinti di avere perduto soltanto a San Germano dove l’Italia e l’Austria firmarono, dopo la fine del conflitto, il trattato di pace.
Non è sorprendente quindi che una famiglia della buona borghesia bolzanina si sentisse anzitutto germanica. Era gente «urbana» in tutti i sensi della parola. Era cresciuta leggendo Goethe e Schiller, Lessing e Fontane. Non amava gli italiani, ma conosceva la loro lingua e ammirava la loro cultura. Ed è persino possibile che non avesse alcuna familiarità con il rugginoso «platt deutsch» parlato nei masi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade di Bolzano, Brunico, Bressanone.
Ancora un ricordo, caro Fava. Durante la guerra, nel 1942, sono stato ospite per parecchi giorni da una famiglia di commercianti bolzanini. Quando l’accordo Ciano-Ribbentrop di tre anni prima aveva permesso ai sud-tirolesi di scegliere fra l’Italia e la Germania, i miei ospiti avevano scelto, come la maggioranza dei loro corregionali, di partire per la Germania. Fecero quella scelta anche perché il Terzo Reich aveva promesso che avrebbero vissuto in cittadine e villaggi in tutto simili a quelli in cui erano nati.