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 2013  dicembre 21 Sabato calendario

KALASHNIKOV, CINGOLATI E LA GRANDE FUGA A JUBA LA GENESI DI UNA GUERRA CIVILE


Il volo dell’Aeronautica militare è appena atterrato sulla pista di Ciampino, e già le mani corrono ai cellulari nel tentativo di avere notizie da chi, giovedì pomeriggio, non era salito sul C-130 inviato dall’Unità di crisi della Farnesina per evacuare gli italiani — 34, su un totale di 63 cittadini europei imbarcati — presenti in Sud Sudan. A ormai cinque giorni dal suo inizio, la crisi che ha travolto lo Stato più giovane del mondo sembra farsi sempre più drammatica, con un’evoluzione che va oltre il tentativo sventato di colpo di Stato militare e risveglia il terrore di un incubo mai del tutto sopito: il ritorno della guerra civile.

L’evacuazione
Il rientro degli italiani si è concluso all’ora di pranzo di ieri, con un’operazione durata più di due giorni, un viaggio di quasi ventiquattr’ore e una provvidenziale pausa notturna alla nuovissima base italiana di Gibuti. Ma non sono bastate l’accoglienza straordinaria da parte dei nostri militari di stanza nel Corno d’Africa e l’efficienza del coordinamento incrociato da Addis Abeba e da Roma per cancellare le immagini, i suoni, le emozioni di chi si è ritrovato a Juba durante i primi giorni dell’emergenza, ed è partito con addosso abiti più adatti al clima tropicale che all’inverno europeo, in mano una borsa stipata con l’essenziale, in testa ancora troppe domande senza risposta.
Le notizie frammentarie in arrivo da Juba servono soltanto a consolidare, purtroppo, un timore condiviso da molti: l’attacco dei ribelli alla base Unmiss (la missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan) ad Akobo, nella regione di Jonglei, che è costato la vita a due peacekeeper indiani; l’allargarsi del conflitto a Bentiu, capitale dello Stato petrolifero di Unity; i colloqui di ieri tra il presidente Salva Kiir e il team di mediatori dell’Unione Africana, arrivato a Juba nel tentativo di conciliare un avvicinamento tra le parti; l’annuncio da parte di Barack Obama dell’invio di 45 soldati americani, a difesa dell’ambasciata Usa e dei suoi dipendenti. A New York, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito per fare il punto della situazione. Se il Sud Sudan — che ha conquistato l’indipendenza dal Sudan nel 2011, dopo quasi mezzo secolo di guerra civile pressoché ininterrotta — dovesse precipitare di nuovo in un conflitto, il rischio di instabilità nell’intera regione sarebbe elevatissimo.

Nella capitale
Mercoledì la capitale, Juba, si era per la prima volta risvegliata dopo una notte di calma relativa, con qualche raffica di kalashnikov nel silenzio del coprifuoco, esteso dalle sei di sera alle prime luci dell’alba. Nelle strade pattugliate da pick-up carichi di soldati dell’Spla (l’esercito regolare sudsudanese) e reparti speciali, le autocisterne avevano ripreso a distribuire l’acqua pompata dal Nilo, negozi e uffici avevano riaperto con circospezione i battenti, e il personale di Nazioni Unite e organizzazioni umanitarie aveva ricevuto il via libera per trascorrere almeno qualche ora al di fuori dei compound dove tutti si trovavano confinati da quando, nella notte tra domenica e lunedì, la città era stata travolta da ondate pressoché ininterrotte di conflitti a fuoco.
Ma la tregua si è rivelata di brevissima durata. Secondo le accuse del governo, dietro l’escalation di violenza degli ultimi giorni ci sarebbe la regia politica di un’unica persona: l’ex vicepresidente Riek Machar, di etnia Nuer, che era stato rimosso a fine luglio dall’incarico e aveva annunciato di recente la volontà di candidarsi alle elezioni del 2015, a capo di un’opposizione allargata a diverse componenti tribali. Nel primo giorno di scontri, i componenti di spicco del nuovo schieramento politico sono stati quasi tutti arrestati, e cinque di loro, tra cui lo stesso Machar, risultano tuttora latitanti. Mercoledì pomeriggio, di fronte all’esecutivo schierato al completo e a una platea di giornalisti quasi esclusivamente locali, Kiir aveva paragonato l’avversario storico Machar a Lucifero, «che si era ribellato contro Dio e la cui ricompensa è stata la condanna a vivere all’inferno». Questo, aveva aggiunto il presidente, «non significa che lo condanni a morte», anzi: se le circostanze lo consentiranno, «mi siederò con lui e potremo parlare».
Il giorno precedente, all’ora di pranzo, le forze lealiste avevano attaccato con i carri armati e a colpi di mortaio la residenza di Machar nel cuore di Juba, in un attacco che avrebbe lasciato un numero imprecisato di vittime (il primo bilancio ufficiale degli scontri di Juba, confermato dalle autorità, sarebbe di 450 morti). Dal cancello di metallo dell’ingresso, dilaniato dai colpi, si allontanano le tracce dei cingolati incise nell’asfalto. Raggiunto al telefono dai giornalisti, Machar ha dichiarato di trovarsi ancora all’interno del Paese, negando di essere il responsabile del conflitto e accusando al tempo stesso Kiir di fomentare divisioni tribali e di non essere più il leader legittimo del Sud Sudan. Il panico si è impadronito di buona parte della popolazione, e le due basi Unmiss di Juba , così come quelle, più piccole, nel resto del Paese, sono state prese d’assalto da civili in fuga: l’ultimo bilancio è quello di 34.000 civili rifugiatisi sotto la bandiera dell’Onu, di cui oltre ventimila nella sola capitale.

L’emergenza umanitaria
Nella confusione generale, aggressioni e saccheggi si sovrappongono e si confondono con le azioni militari. Chi può tenta in tutti i modi di andarsene, via terra l’esodo di automobili ha intasato l’unica strada asfaltata in uscita dal Paese, verso il confine con l’Uganda — o per via aerea. Alla riapertura dell’aeroporto, dopo due giorni di stop ai voli, sono iniziate le evacuazioni: americani, britannici, italiani, diplomatici dell’Unione Europea sono stati tra i primi ad avere la possibilità di imbarcarsi, su velivoli militari o civili affittati all’uopo.
Dall’ambasciata d’Italia ad Addis Abeba (competente per il Sud Sudan), in serata, arrivano le indicazioni per chi non è ancora partito: «Mantenere la calma, restare in casa ed evitare spostamenti non indispensabili». In molti — soprattutto tra i religiosi, una presenza capillare e ormai storica nel Paese — hanno già annunciato di voler rimanere. Tutti, sudsudanesi e non, nella speranza che l’incubo della guerra civile non si trasformi nuovamente in realtà.
Gabriela Jacomella

@gab_jacomella