Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 21/12/2013, 21 dicembre 2013
ALTRO CHE AFRICA, VI RACCONTO LA RIVOLUZIONE DELLE FIGURINE
[Walter Veltroni]
Il primo ad annoiarsi quando gli chiedono di parlare di politica sembra lui. “Sì, le interviste di sola politique politicienne non sono le mie preferite”. Uno dei suoi idoli, Ivano Fossati, quando era sindaco lo raccontava come uno che dimenticava tutti gli appuntamenti istituzionali se il discorso verteva su Beatles, De André o il riff de La mia banda suona il rock (che Fossati detesta, ma Veltroni no). Cinquantotto anni, mai stato premier nonostante l’infatuazione che imbambolò quasi tutti i media nel 2008, Veltroni è chiuso in sala di montaggio per terminare il nuovo film. È dedicato a Enrico Berlinguer, quasi a sancire il contrappasso sommo: raccontare l’ultimo leader di sinistra capace di generare appartenenza, e farlo da ex leader che non è riuscito nell’impresa analoga.
Che film sarà?
Si intitolerà Quando c’era Berlinguer e ha tre piani narrativi: immagini di repertorio anche inedite; interviste; e riprese da me effettuate, però senza attori. Non so se uscirà anche al cinema, di sicuro verrà trasmesso a giugno da Sky per il trentennale della scomparsa.
La sensazione, rivedendo le immagini del malore sul palco di Padova, è che Berlinguer capì perfettamente la gravità della situazione. Però decise di andare avanti: per non abbandonare i compagni, fino a sacrificarsi per essi.
È anche la mia convinzione. Di quel discorso a Padova il 7 giugno 1984 mi hanno colpito sempre due aspetti. Il fatto che, dopo il malore, Enrico andò avanti e chiuse il discorso perfettamente, con la frase che usava sempre nei comizi. E poi il sorriso che regala a un certo punto: un sorriso indimenticabile.
La folla gridava: “Basta Enrico, fermati”. E lui niente. Avanti.
Credo provasse anche imbarazzo. Una sorta di pudore, da persona riservata qual era. Riteneva come fuori luogo sentirsi male in pubblico, lo capisci da quel fazzoletto con cui si pulisce la bocca. La sera del malore, il partito e la famiglia mi chiamarono. Avevano saputo che c’era un video sin troppo esplicito e non volevano che circolasse.
Perché chiamarono lei?
Ero il responsabile dell’informazione Pci. Al mattino telefonai a Grazia Neri a Parigi. Il video era suo. Oggi lo avrebbero trasmesso comunque: lei invece capì e lo bloccò. Ne ebbi copia e lo vidi privatamente. Nella stanza c’eravamo solo io e Giovanni Berlinguer: fu tremendo. Enrico morì tre giorni dopo. Un giovane caro agli dei.
Dopo di lui la sinistra non ha più avuto un leader. Cambiati i tempi o colpa vostra?
Non so come avrebbe vissuto in questa realtà scandita da Internet. L’intervento sul compromesso storico uscì in tre articoli su Rinascita: un pezzo a settimana. Le parole “compromesso storico” comparivano giusto alla fine del terzo articolo. Altri tempi. Era poi un uomo che elaborava in solitudine: quando disse in tivù che era finita “la spinta propulsiva”, lo fece senza avvertire nessuno.
L’editoria è in crisi. Nel ‘92 divenne direttore de L’Unità, apportando modifiche radicali.
Sul modello americano, volevo creare una koinè culturale senza steccati di partito. Divisi L’Unità 1 dall’Unità 2 per dare analoga importanza alla cultura. Ogni giorno c’era un editoriale culturale. Puntai molto sui collaboratori: McEwan, Veronesi, Barbato. Serra ed Ellekappa in prima pagina.
E gli allegati? Ha sdoganato una moda poi esplosa. Pure troppo.
Incolparmi di questo sarebbe come accusare i Lumière di avere inventato il cinema perché così hanno permesso la nascita dei film porno. I nostri gadget avevano sempre una logica. Quando morì Fellini, “incartammo” il giornale con quattro pagine a lui dedicate. Siamo stati i primi. Volevo allargare il pubblico: così puntai sui Vhs, che ancora oggi trovo in tante case.
Poi libri e figurine Panini.
Il primo libro fu proprio su Berlinguer: 300 mila copie. Le figurine Panini? Ho sempre avuto la fissa per la memoria e giocai sullo slogan “E tu ce l’hai Pizzaballa?”. Alle sette di mattina della prima uscita fui svegliato dall’editore: le 300 mila copie erano già esaurite.
Così facendo ha accelerato il declino de L’Unità, spingendolo a investimenti sanguinosi.
Gli allegati coincisero con grandi introiti. Passai dalle 117 mila copie del ’92 alle 151 mila del ’95. Casomai sbagliai nel moltiplicare edizioni e redazioni locali: un errore.
Oggi i giornali sono in crisi.
Stamani, alle 7, ero in aeroporto a Bari. Non c’era nessuno che leggeva un quotidiano cartaceo. Dieci anni fa lo avrebbero avuto tutti. Internet ha accelerato la crisi . È anche colpa dei giornali stessi, che si limitano spesso a fare ribattute di notizie date da SkyTg24 la mattina prima. Non esiste più l’effetto sorpresa.
Quindi i quotidiani sono morti?
No, perché è compito dei giornali dare ordine al caos che regna in Rete e fornire chiavi di lettura diverse: coltivare la profondità, come amo dire. Non è detto che possano farlo i quotidiani, di sicuro lo fa un settimanale come Internazionale.
Il Fatto è l’unico quotidiano nazionale in crescita rispetto al 2012.
Siete spesso duri con me, ma non è mai stato un aspetto decisivo per suscitare in me stima o no. La critica va bene, se accompagnata da onestà intellettuale e qualità. Ed è innegabile che nel Fatto questi valori ci siano. Poi non condivido molte vostre battaglie e forzature, ma il Fatto è tra i pochi ad avere trovato la sua narrazione.
Lei è assurto a icona del buonismo, ma adora gli irregolari. Qualcosa non funziona.
Io adoro... anzi no, “adoro” no, è una parola che non sopporto. Amo tre categorie: coloro che sanno essere imprevedibili, come Pasolini su Valle Giulia o Gaber a teatro. Poi amo chi sa portare un progetto là dove era impensabile andare, come Berlinguer che prese un partito filo-sovietico e lo cambiò radicalmente.
E la terza categoria?
Gli sconfitti: da bambino tifavo per gli indiani. I miei libri sono pieni di grandi sconfitti: Il sogno spezzato di Bob Kennedy, La sfida interrotta di Berlinguer. Un uomo morto due volte: la seconda a Padova, la prima con il rapimento Moro.
Lei sembra divertirsi molto di più a parlare di musica che di politica.
La cosa che più mi piace è ascoltare la vita degli altri e occuparmi di loro. Farlo da sindaco era bellissimo. Poi la cultura. E dopo, solo dopo, la politique politicienne. Una classifica forse non troppo indicata per un ex leader di partito.
Renzi e 5 Stelle: sono in grado di generare appartenenza?
Sì, ma un’appartenenza moderna, legata a battaglie specifiche, che non ti accompagna più dalla culla alla tomba. Un’appartenenza legata non all’ideologia, che è cosa chiusa, ma alla idealità, che è cosa aperta. Se ci riesce anche Grillo, che pure non condivido, benissimo.
Qual è stato il suo errore politico più grande?
Smettere di fare il sindaco e accettare il ruolo di candidato premier. Ricordo le piazze piene e il 34%: la stessa percentuale di Berlinguer. Era doveroso accettare, ma se avessi avuto più cinismo avrei rifiutato.
Lei non doveva andare in Africa?
Ci vado di continuo. I motivi per cui non mi sono trasferito stabilmente sono personali e mi perdonerà se sarò generico. Da Fazio dissi che avrei abbandonato incarichi di vertice e sono stato l’unico a farlo. Provi a chiedere a chi mi rinfaccia di non essere rimasto in Africa: “Cosa ha fatto lei di buono per gli altri?”. Non saprà cosa rispondere.
E Veltroni lo saprebbe?
La prima volta che sono andato in Africa ho visitato un orfanotrofio in Mozambico. Ci portavano i bambini trovati nei cassonetti. Oggi quell’orfanotrofio è molto più efficiente e bello di come l’ho trovato. È una cosa che mi fa stare bene. Ci tornerò presto.
Ma lei, la politica, la ama ancora?
Certo. La politica è una missione laica, nobilissima. Che Berlinguer ha perfettamente incarnato.