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 2013  dicembre 21 Sabato calendario

OBTORTO COLLE


Si spera che la delegazione del Csm, guidata dal sempre garrulo e ridanciano vicepresidente Michele Vietti in un’epocale trasferta a Palermo, abbia trovato la città di suo gradimento. Che il clima fosse dolce, la temperatura mite, l’albergo accogliente, le sarde a beccafico cotte a puntino, il pane con panelle fragrante, la cassata e i cannoli alla ricotta appena sfornati. Se così non fosse, sfuggirebbe il senso della gita fuori porta di quello che un tempo era l’organo di autogoverno della magistratura e da tempo s’è ridotto all’ennesimo ente inutile, anzi dannoso in quanto molto costoso, al servizio di Sua Maestà Re Giorgio. Era parso di capire che la visita di 7 consiglieri su 27 nel capoluogo siciliano fosse finalizzata a esprimere di persona la solidarietà al pm Nino Di Matteo, destinatario di ripetuti ordini di morte pronunciati da Salvatore Riina in colloqui intercettati con un boss pugliese, e ai colleghi impegnati con lui nel processo e nelle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia, e per questo attaccati da politici, giornalisti, presunti giuristi, presunte istituzioni e minacciati da lettere e visite a domicilio mezzo mafiose e mezzo istituzionali. Tant’è che il Pg Gianfranco Ciani, membro di diritto del Csm, 15 mesi dopo aver aperto un fascicolo disciplinare su Di Matteo per un’innocua anzi doverosa intervista sulle telefonate Mancino-Napolitano, proprio due giorni fa aveva chiesto di archiviarla per rendere meno imbarazzante la trasvolata dei colleghi. Ma era solo un’impressione, già peraltro smentita dalla “delibera di particolare urgenza” emessa dall’illustre consesso il 18 dicembre, con la consueta litania paracula della “presenza solidale nei confronti dei magistrati oggetto di gravi e reiterate minacce”. Dunque, ad avviso di questi buontemponi – due terzi dei quali dovrebbero essere magistrati e dunque riuscire a cogliere la differenza che c’è fra una minaccia anonima e l’ordine di un boss di organizzare una strage come quelle del 1992-’93 per eliminare un magistrato, come fu per Falcone e Borsellino – Di Matteo non merita di essere citato con nome e cognome per quello che è: cioè il nemico pubblico numero uno del più feroce stragista italiano di tutti i tempi. Casomai ve ne fosse ancora bisogno, ieri la promenade dei sette gitanti ha accuratamente evitato di incrociare, anche soltanto di striscio, Di Matteo e i suoi colleghi impegnati nelle indagini sulla trattativa: e cioè il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. I quattro erano regolarmente nei loro uffici a lavorare, ma Vietti & C. hanno girato alla larga, preferendo incontrare i “capi degli uffici”, i vertici dell’Anm locale e naturalmente i rappresentanti dell’avvocatura. “Sono qui con una delegazione del Csm per manifestare vicinanza ai magistrati che lavorano qui anche a rischio dell’incolumità”, ha tromboneggiato Vietti, con una frase che avrebbe potuto pronunciare in un giorno qualunque di un anno qualunque di un secolo qualunque, visto che da sempre a Palermo i magistrati antimafia lavorano anche a rischio dell’incolumità. Oggi il rischio maggiore lo corrono i suddetti quattro magistrati, e proprio perché indagano sulla trattativa. Ma questi, mentre Vietti parlava senza mai nominare né loro né la trattativa, non erano presenti, perché nessuno li aveva invitati. “Solidarietà in contumacia”, ha ironizzato uno di loro. “Non siamo stati noi a organizzare la visita”, ha tentato di difendersi Vietti, smentito dalla delibera del Csm che non prevedeva alcun incontro con i quattro pm. Ciò che impedisce al Csm e al suo vicepresidente Vietti di pronunciare le paroline “Di Matteo” e “trattativa” non è un improvviso attacco di dislessia. È la suprema volontà di Sua Altezza, che ieri ha fatto gli auguri perfino ai due marò imputati per aver accoppato due pescatori indiani: ma ai quattro pm della trattativa no. I sette nani si sono prontamente allineati. E a Di Matteo, anziché la “presenza solidale”, han fatto sentire tutta l’assenza ostile dello Stato. Se restavano a casa, facevano meno danni.