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 2013  dicembre 21 Sabato calendario

LA CASSAZIONE RIDÀ 8 MILIARDI AI RIVA


E adesso chi paga? La Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio il sequestro da 8,1 miliardi che, a maggio era stato disposto dal gip di Taranto Patrizia Todisco ai danni della Riva Fire, la cassaforte della dinastia milanese che possiede l’Ilva. Per la magistratura pugliese, che aveva confermato il provvedimento attraverso il tribunale del riesame, è una sconfitta campale. La demolizione del suo teorema costruito con un eccesso di fanatismo ecologista.
Dice Franco Gozzi, prersidente di Federacciai facendosi, molto probabilmente, portavoce della soddisfazione della famiglia Riva: «Accogliamo con grande soddisfazione la sentenza della Corte di Cassazione che, dopo lunghi mesi di accanimento giudiziario ha finalmente giudicato con pieno spirito di terzietà l’intera vicenda. Il nostro auspicio è che partendo da questa base si possa affrontare il prosieguo della questione Ilva in un clima di maggiore oggettività e serenità».
C’è infatti da sperare che ora venga posto fine a una crociata che rischia solo di creare dodicimila disoccupati, tanti quanti sono i lavoratori del gruppo. Tanto più che non è nemmeno l’unica. Già in precedenza la Procura di Taranto e il gip Patrizia Todisco erano stati fermati nella loro loro offensiva contro lo stabilimento della famiglia Riva. In particolare quando avevano disposto il sequestro dei prodotti finiti per un miliardo già pronti per la spedizione ai clienti.
La sequenza di sconfitte dovrebbe far riflettere. Soprattutto perché la guerra fra la Procura di Taranto e la famiglia Riva ha disseminato il terreno di macerie. Operai in cassa integrazione, incertezza per il futuro dei posti di lavoro, commesse perdute, ricchezza sprecata. Tutto questo, dice ora la Cassazione, senza una ragione plausibile.
E ora chi paga? Perché nell’ultimo anno le iniziative della magistratura hanno creato guasti molto profondi nel tessuto produttivo. Lo stabilimento di Taranto rappresenta la più grande acciaieria d’Europa. La Procura ha lanciato la sua crociata sostenendo che l’impianto stava avvelenando Taranto. Il sequestro di 8,1 miliardi (due volte il gettito dell’Imu sulla prima casa) era pari alla somma che la famiglia Riva avrebbe dovuto investire per il risanamento ecologico. In Italia non si era mai visto un blocco di queste dimensioni. Ora la Cassazione ha deciso che, oltre a essere troppo grande, era anche immotivato.
Il blocco disposto dal gip Todisco aveva creato gravi danni a tutto il gruppo.
Il sequestro annullato riguardava i beni e le disponibilità finanziarie della holding, sulla base della quantificazione elaborata dai custodi giudiziari degli impianti dell’area a caldo del siderurgico tarantino.
Secondo i consulenti della procura, gli oltre 8 miliardi sarebbero una cifra equivalente alle somme che dal 1995 (anno di acquisizione della Italsider pubblica) l’Ilva avrebbe risparmiato non adeguando gli impianti, e in particolare quelli dell’area a caldo (sotto sequestro dal 26 luglio 2012, anche se la fabbrica non si è mai fermata), alle normative ambientali, pregiudicando l’incolumità e la salute della popolazione.
La tesi sostenuta dagli inquirenti tarantini era molto schematica. Gli investimenti non eseguiti si sono tradotti in un guadagno illecito: un tesoretto che i Riva avrebbero accumulato risparmiando sulla salute dei cittadini. In totale sotto sequestro erano finiti beni, di cui è custode e amministratore giudiziario il commercialista Mario Tagarelli, per poco meno di due miliardi, di cui le liquidità ammontano a circa 56 milioni di euro. All’indomani dell’esecuzione dell’ordinanza da parte della Guardia di Finanza, in settembre, il gruppo aveva annunciato la chiusura di sette stabilimenti e di due società di servizi e trasporti facenti capo a Riva Acciaio sparsi in tutta Italia, con la messa in libertà di circa 1.400 addetti. Chiusura durata 20 giorni, e revocata dopo la precisazione da parte dei magistrati tarantini che «non è stata posta alcuna preclusione all’uso dei beni da parte del soggetto proprietario».
Ora la Cassazione ha messo lo stop. Le accuse non erano fondate. Resta l’interrogativo: e ora chi paga?