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 2013  dicembre 21 Sabato calendario

UNA BABELE DI DIALETTI MANDA IN TILT IL TRIBUNALE


I dialetti sono un patrimonio culturale di straordinaria importanza. Ma che cosa succede se irrompono nelle aule di Tribunale e se giudici e pubblici ministeri non hanno particolare dimestichezza, o non ne hanno alcuna, con l’alloglossia? Può succedere di tutto: il processo si trasforma in una pièce dell’assurdo o in una tragedia greca. Agrigento, processo per mafia: un avvocato contesta l’esatta traduzione fatta dalla polizia giudiziaria di una telefonata intercettata e chiede di nominare come interprete autentico, dal siciliano all’italiano, lo scrittore Andrea Camilleri.
Tribunale di Caltanissetta: un anziano e poco acculturato signore di un paesino dell’entroterra viene sentito come testimone; a interrogarlo è un pm romano di ottima famiglia, che gli chiede con linguaggio forbito: «Ha percepito emolumenti?»; «Chi cuosa?» risponde il teste; «Ha percepito emolumenti?» insiste il pm, ricevendo però la stessa risposta per almeno 5, snervanti, minuti, tra le risatine del pubblico e l’imbarazzo di giudici e cancellieri; finché il presidente del Tribunale decide di fungere da interprete: «Sa pigghiò a pinsione?». «Ah! A pinsione! Sì, ma pigghiavu a pinsione, certu che m’a pigghiavu!».
Perle rubate ai ricordi di magistrati alle prese con dialetti sconosciuti, spesso intraducibili anche per gli autoctoni. Decine e decine di casi esilaranti, anche al limite del paradosso, a cui potrebbero aggiungersi quelli, non meno numerosi e divertenti, dell’uso distorto della lingua italiana da parte di imputati e testimoni. Situazioni da non prendere sotto gamba, perché capire fischi per fiaschi, in Tribunale, può essere fatale all’accertamento dei fatti.
Le intercettazioni, già di per sé strumento delicato da maneggiare quando non se ne ascolta direttamente il contenuto e quindi non se ne percepisce il tono, diventano mine vaganti. Un giudice, romano di adozione ma tarantino di nascita, racconta di una conversazione telefonica in cui l’imputato, anch’egli tarantino, si esprimeva in un dialetto strettissimo mal compreso dai trascrittori, tant’è che il difensore aveva chiesto che la registrazione fosse ascoltata in aula; l’unico ad accorgersi - ma del tutto casualmente - che la trascrizione non rispecchiava il contenuto della conversazione, ma anzi lo alterava (seppure in buona fede), fu il giudice, che però, non potendo usare la propria "scienza" per confutare la traduzione, fu costretto a nominare un perito esperto in quel dialetto, e solo allora fu chiaro il significato delle parole, con conseguente ribaltamento dei fatti.
Un altro giudice ricorda che a Sant’Angelo dei Lombardi, in un processo nei confronti di un pastore che parlava un dialetto dell’entroterra irpino incomprensibile anche al Pm, la situazione fu sbloccata per un colpo di fortuna, grazie al maresciallo dei carabinieri di una stazione della zona, che si trovava nel corridoio in attesa di essere chiamato come testimone in un altro processo, e che fu nominato interprete all’istante. A Napoli, per venire a capo di quanto stessero dicendo gli imputati di un processo per furto, il giudice e la cancelliera furono costretti a una traduzione simultanea a beneficio dello stenotipista, del pm e dell’avvocato.
Ma spesso neanche questo soccorso fatto in casa funziona, perché termini, espressioni, modi di dire, cadenze, cambiano non solo da regione a regione, provincia a provincia, ma anche da paese a paese, e nel raggio di pochi km. Immaginiamo le oggettive difficoltà di comprensione che avrebbe avuto Antonio Ingroia se avesse accettato di fare il giudice ad Aosta, dove lo aveva mandato il Csm: lui, siciliano doc, alle prese con il patois, spesso indecifrabile anche per gli stessi valdostani.
Non è invece frutto di immaginazione quel che è accaduto a Palermo, durante l’esilarante esame di un testimone. In provincia, "non ci penso" equivale a "non mi ricordo" e "completamente" significa "per niente". Così, di fronte a un teste reticente che si trincerava dietro continui "non ci penso", un pm "straniero" cominciò (non senza perplessità) a contestargli le sue precedenti dichiarazioni; alla domanda di rito se ne confermasse il contenuto, il teste rispondeva, perentorio: "Completamente!", intendendo però che non le confermava affatto, mentre il povero pm, ignorando il modo di dire locale, era convinto che le stesse confermando integralmente e perciò proseguiva spedito e soddisfatto. Per fortuna il giudice (che era un locale) se ne accorse e pose fine al qui pro quo. O al "qui quo qua", come disse un altro teste, senza bisogno di essere tradotto...