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 2013  dicembre 21 Sabato calendario

SELLA CONTRO LO SPREAD DEL RISORGIMENTO

Immaginate un Paese la cui economia non cresce mentre cresce il debito pubblico. I suoi governi sono incalzati dai creditori esteri, i giovani intraprendenti emigrano, la politica è rissosa, il giornalismo spesso stridulo, l’ordine pubblico precario. Per far passare le leggi finanziarie occorre fare ricorso a un unico «maxiemendamento» e per far quadrare il bilancio si parla di vendere beni pubblici. No, non si tratta dell’Italia di oggi, bensì di quella di 150-120 anni fa: per quanto una certa retorica patriottica abbia cercato di minimizzare, i primi decenni dell’unità furono chiaramente un disastro economico nel quale molte delle speranza di una rapida crescita andarono deluse. Fu solo attorno al 1885-90 che si ebbe il «Risorgimento economico»: in vent’anni l’Italia riuscì a dotarsi di una più che discreta base industriale, all’avanguardia in molte tecnologie.
In quegli anni economicamente bui, normalmente ricordati per episodi importanti dell’epopea risorgimentale come la terza guerra d’indipendenza e la presa di Roma, spicca la figura di Quintino Sella, ministro delle Finanze nel governo Rattazzi del 1862, nel governo Lamarmora del 1864-65 e nel governo Lanza (spesso indicato come «governo Lanza-Sella») del 1869-73, che fece di Roma la capitale d’Italia. Non si trattava di un politico tradizionale, ma di un personaggio poliedrico: ingegnere idraulico, alpinista, studioso di cristallografia, inventore di una macchina per la separazione elettromagnetica del rame dalla magnetite, contribuì a fondare sia la Società Geologica Italiana sia il Club Alpino Italiano.
Oltre che ministro e deputato fu prefetto di Udine, consigliere comunale di Torino e presidente dell’Accademia dei Lincei. Il Sella viene però ricordato solo, o soprattutto, per la «tassa sul macinato», (in realtà introdotta dal suo predecessore, che egli però inasprì) ma non era affatto un sostenitore del pareggio del bilancio a ogni costo. Lo dimostra un libro di Ferdinando Salsano (Quintino Sella ministro delle Finanze, edito dal Mulino) che nel 2009 aveva già scritto un libro su Beniamino Andreatta, «storico», anche se recente, titolare di dicasteri economici.
Il fatto è che l’Italia di allora, come l’Italia di oggi, non aveva molte scelte in materia di economia e finanza. Oggi si teme, se le politiche di risanamento dovessero fallire, di essere «commissariati» dalla «troika» (Fondo Monetario, Unione Europea, Banca Centrale Europea); allora di fatto si rischiava di essere commissariati dai Rothschild. E furono i Rothschild a suggerire la vendita della nascente rete ferroviaria, un’operazione alla quale il Sella, pur tradizionalmente rappresentato come liberista, ma in realtà molto più pragmatico, e molto attento alle problematiche della crescita, era fortemente contrario ma che dovette accettare.
Il Tesoro aveva sulle spalle sia il cospicuo debito del Regno di Sardegna, contratto per le due prime guerre di indipendenza sia il debito ereditato dagli stati pre-unitari, in particolare dallo stato pontificio nel 1870; per non parlare delle continue richieste di fondi da parte della politica per finanziare il completamento dell’avventura risorgimentale. Quintino Sella era ben consapevole della necessità del rilancio dell’economia ma anche del pericolo di un dissolvimento del nuovo stato unitario sotto il peso dei debiti. «La vicenda governativa di Quintino Sella - scrive Salsano -, è prima di tutto la storia dei suoi tentativi per convincere il paese ad assumere subito la dose di chinino necessaria a debellare la malattia».
Che fosse necessaria, lo dimostra il fatto che, quando andò al potere nel 1876, la sinistra di Depretis ci mise cinque anni ad abolire quella tassa che incideva fortemente sul tenore di vita dei meno abbienti. Del resto, la richiesta di sacrifici da parte del Sella, come ricorda Salsano, non riguardava solo i ceti rurali ma anche i possidenti con l’imposta fondiaria, quella sulla ricchezza mobile e la ritenuta sui titoli di Stato.
Quintino Sella non ignorava i sacrifici ma li riteneva preferibili alle soluzioni alternative. «La vera tassa sul povero - è scritto in un discorso sul dazio sul macinato riportato da Salsano - sta nella sfiducia», intendendo la sfiducia del capitale che «si nasconde» anziché finanziare investimenti e anche «effettivamente diminuisce». Forse oggi invece che di sfiducia parleremmo di «spread», che costa al contribuente italiano qualche decina di milioni al giorno in termini di interessi più elevati di quelli che paga, per le stesse somme prese a prestito, un paese «virtuoso» come la Germania.
Più si esplora con questo libro la storia di allora, più i paragoni con la storia di oggi si fanno incalzanti. Con qualche modesta consolazione, però: l’Italia di allora era messa molto peggio dell’Italia di oggi, eppure riuscì a venirne fuori. Chissà che non capiti anche a noi?
mario.deaglio@gmail.com