Marco Neirotti, La Stampa 21/12/2013, 21 dicembre 2013
DALLA SICILIA A TORINO, OGGI NON LO RIFAREI
«Eravamo nove fratelli...». «Io e lei ci innamorammo durante una vacanza giù al paese». «Facevo il doppio lavoro e a casa giocavo con i figli piccoli». Intorno a un unico ramo - la famiglia - si avvolgono per Calogero i viaggi in treno dalla Sicilia e i ritorni, l’imbarco da marinaio sulla Amerigo Vespucci e la festa del matrimonio.
Inoltre, l’umiliazione per gli alloggi negati ai meridionali e la svolta di un posto alla Fiat. Fierezza e una punta di baldanza avanzano nella foto scattata il 28 agosto 1978, ore 14,30, uscita dal turno in fabbrica. Aveva trent’anni l’operaio Calogero Rotlando che nella città degli attentati e delle incertezze si rasserenava nella famiglia che cresceva. A casa, con la moglie Domenica, Mimma, c’era la figlia Rosy, che aveva un anno, stava per arrivare Giuseppe. Era la seconda, definitiva, venuta a Torino, era tenacia, accolta dopo una prima speranza soffocata.
C’è serenità nello sguardo di oggi, dove ancora luccicano stupore ed emozione dell’altra domenica, quando Calogero - oggi pensionato di 65 anni - ha visto d’improvviso se stesso nella pagina de La Stampa che attraverso gli archivi illuminava l’immigrazione: «Guardate questo qui», ha detto agli amici mentre facevano colazione al bar. «E allora?». «Sono io». Ed è tornato a casa, ha aperto il giornale e ha sorriso a Mimma, a Rosy e Giuseppe, che ora hanno 36 e 33 anni, torinesi di nascita, che lavorano in banca lei e in una ditta d’imballaggi lui.
Aveva 12 anni Calogero quando salì la prima volta a Torino da Castronovo, provincia di Palermo. Era il 1960. «Eravamo una grande famiglia. Mio padre, Giuseppe, e mia madre, Rosalia (morti negli anni scorsi, ndr) avevano un po’ d’orto e lui lavorava nei cantieri sulle strade, quando si portavano materiali e attrezzature per chilometri con i muli. Eravamo nove figli, quattro maschi e cinque femmine. Io e un gemello che non c’è più eravamo i più piccoli».
Primi a salire al Nord furono Vincenza (a Torino, sposata, il marito dipendente della Cromodora) e Vincenzo (stabilitosi a Genova, lavoro nell’edilizia): «Durante una vacanza di lei a Castronovo si parlò ancora di emigrazione. Progettavano di salire anche i miei e io, dodicenne, partii subito con mia sorella». Papà e mamma arrivarono due anni dopo: «L’impatto fu doloroso. Il lavoro papà lo trovò nei cantieri sulle strade, dove facevano i pozzi delle fognature, ma per la casa nessuna chance. Il "non si affitta ai meridionali" era la realtà. Non generava rabbia, ma una tristezza sorda, faticosa. Si dormiva accampati, ospiti in spazi ristretti a casa di Vincenza, a Madonna di Campagna, la famiglia quale unica certezza, qualcuno degli adulti appisolato a riposarsi come poteva su una sedia. Non si poteva andare avanti in quel modo, diventava un problema anche per mia sorella di fronte al condominio. Decisero di provare altrove».
Si va a Genova, dove c’è l’altro fratello, emigranti nell’emigrazione. Si trova alloggio senza pregiudizi, lavoro nei cantieri. Il bambino Calogero è cresciuto, è tempo del servizio militare: «Andai in Marina, due anni, dal ‘68 al ‘70. A Livorno mi imbarcarono sull’Amerigo Vespucci. Era la Campagna Addestrativa, per me una crociera». Durante una vacanza, si disegna il futuro: «Anche Mimma era emigrata al Nord con i suoi, ma fu a Castronovo che ci trovammo e innamorammo«. Si sposano nel ’70 a Torino. La situazione sociale è alleggerita, disciolta parte della diffidenza si trova casa: «Feci domanda alla Fiat, fui assunto in Selleria, lavoravamo i sedili di 125, 131, 132, 127. Quando uscivo, pensando al futuro, andavo a lavorare ancora in una fabbrica che produceva teloni, tende per il campeggio». Il 1980 è l’anno della cassa integrazione, degli scioperi, dei picchetti, della «marcia dei quarantamila». Calogero lascia la Fiat e entra a tempo pieno nell’azienda di telerie. Fino alla pensione.
Oggi, con Mimma, «sorveglia» sorridente la serenità dei figli, ai quali marito e moglie hanno dedicato i loro passi. Rosy, laureata in Giurisprudenza, dopo un periodo in uno studio legale è entrata in banca («il praticantato significava gravare ancora sui miei») e Giuseppe in un’azienda di imballaggi. Dice Rosy: «Quando sentiamo raccontare di quegli anni, del doppio lavoro, non proviamo soltanto gratitudine per ciò che mio padre ha fatto, ma anche per il senso della vita e della famiglia che insieme ci hanno trasmesso». Ogni anno tornano tutti quattro a Castronovo per una vacanza: «Siamo grati a Torino, sgombri da quel rifiuto e da quel disagio iniziale. Siamo torinesi, torinesi di Sicilia».
Calogero, che farebbe se il tempo tornasse indietro? che farebbe con il senno di poi? «Forse non partirei. Ma con il senno di poi nemmeno ho rimpianti. Il senno di poi è un’ipotesi, il presente è la realtà, come la commozione di fronte alla sorpresa di quella fotografia».