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 2013  dicembre 20 Venerdì calendario

L’ITALIA È UN PANTANO NON RIESCO A STARCI


[Roberto Saviano]

SCATTA UNA FOTO CHE MOSTRA IL FINESTRINO DI UN AEREO E LA SUA MANO CHE REGGE UN PASSAPORTO, POI LA CARICA SU FACEBOOK E CI SCRIVE SOPRA: «LOOKING FOR FREEDOM». Due settimane dopo, il colosso Amazon sentenzia: ZeroZeroZero è il libro italiano più venduto del 2013 (tradotto in trenta paesi, già uscito in Svezia, Olanda e Repubblica Ceca, a breve in Germania, Usa, Inghilterra, Spagna, Brasile, Giappone...) L’Italia è il Paese che lo premia coi numeri, ma è anche il Paese che lo costringe a vivere come un galeotto. Ed è un posto dal quale, al momento, Roberto Saviano vuole tenersi alla larga.
Quasi cinquecento pagine di argomenti non proprio leggeri. Forse è per questo che una certa critica era pronta a scavarti la fossa. E invece... Ti aspettavi una cosa del genere?
«Non me l’aspettavo assolutamente. Credo che le persone l’abbiano letto come un manuale per capire e sopravvivere. Il narcotraffico è una delle poche risorse dell’economia italiana e di quella occidentale in genere in questa fase di crisi. Vedi spuntare alberghi, supermercati, investimenti, e tutto in un territorio impoverito e senza risorse. Senza conoscere come agiscono le organizzazioni criminali, senza conoscere la loro potenza economica, non ti spieghi da dove vengano – non sempre, naturalmente – le risorse per quegli investimenti».
I lettori Italiani quindi sono molto più attenti di quanto non si creda.
«Assolutamente. I lettori italiani non vogliono essere solo intrattenuti in maniera leggera. Basta guardare i libri letti quest’anno: molti sono tutt’altro che semplici. Limonov di Carrère per esempio è un libro raffinatissimo e ha stravenduto; Primo Levi è sempre in classifica».
L’Italia ti premia, ma tu vai all’estero. Qualcuno direbbe che sei un ingrato.
«Sono grato ai miei lettori, ma devo trovare il modo di riprendermi la mia vita, e lo farò a tutti i costi. Difficile farlo in Italia. Voglio riprendermi una qualche forma di felicità...»
Depressione spinta?
«Sì. Ciclicamente ci ricasco. Chi conosce la depressione sa che è come un’idrovora che succhia tutto ciò che hai dentro».
Forse è così che deve andare. Senza reclusione potrebbe esistere il tuo successo?
«Non nel mio caso. La reclusione ormai coincide con la mia vita. Una vita con o senza successo. Paradossalmente, la mia visibilità e i miei impegni pubblici mi garantiscono quel poco di libertà di movimento che altrimenti non avrei. Altrimenti, come molti altri nel nostro paese, vivrei solo rinchiuso o controllato».
Ti invidiavo, ma poi ci siamo conosciuti. Vivi in una gabbia strettissima, paralizzante. Conduci un’esistenza azzoppata, piena di limiti, di transenne... È questo il successo?
«Una gabbia che voglio aprire e sto aprendo... Sul piano professionale, il successo è qualcosa di importante da raggiungere: ti leggono in tanti, la condivisione di idee alimenta la tua creatività. Riesci a vivere del tuo lavoro. Poi c’è il piano personale...»
Dove le cose si complicano.
«Sul piano umano è diverso. Ho capito che la fama è una cosa terribile un giorno in cui ero con la mia scorta in un ristorante, una persona a distanza riprendeva con l’iPhone tutto il tempo. Il mio caposcorta evitò di intervenire. Alla fine gli chiesi “ma cosa ci fai con questa ripresa?” Mi rispose “a casa leggo il labiale, così capisco cosa vi siete detti a pranzo”. Ecco, la fama è anche questa brutta roba. Morbosità».
Tantissimi ti vogliono bene e ti stimano.
«Certo, sono la mia forza. Ho la sensazione, quando mi incontrano e chiedono di abbracciarmi, di continuare a lavorare solo per loro. Per questa Italia che vuole ragionare, capire».
Ma molti altri ti odiano.
«La visibilità crea fastidio. Le critiche sono legittime e aiutano a crescere (e sono fondamentali per qualsiasi scrittore, anzi direi per qualsiasi essere umano) ma spesso l’attacco è fine a se stesso, puro fango e schifezze. La furbizia parassitarla di chi ti attacca per godere di qualche visibilità, per chiedere prebende, perché se compri il banner sul sito o lo finanzi in qualche modo smette di attaccarti. O è solo rivale della casa editrice o del giornale su cui scrivi. L’Italia (e non solo) è fatta anche di queste miserie. L’orrido mondo degli addetti ai lavori. Talvolta c’è solo l’ossessione di chi si ripete da anni “in fondo Gomorra avrei potuto scriverlo anche io”, oppure “sono cose che si sapevano”. Certo, le notizie sono lì, ma poi bisogna soffermarsi, organizzarle, metterle in connessione con ciò che è avvenuto prima e dopo».
Tre cose che proprio non ti vanno a genio di questa nazione.
«Paese di contrade, come diceva Guicciardini. Vicino odia vicino. Paese dove cinismo e disillusione hanno totalmente ucciso la fiducia. Paese di un immobilismo insopportabile. Insopportabile per chi ha investito tutta la sua vita in istruzione e formazione, e insopportabile per chi lavora 18 ore al giorno per migliorare la propria posizione sociale. Paese in cui non c’è più speranza, in cui l’alternarsi di visioni iperottimistiche e ultracatastrofiche ha finito per fiaccare ogni vitalismo. Paese dove si è creata una sorta di cultura al massacro, dove una serie di commentatori, giornalisti, addetti ai lavori, non distinguono tra l’errore e il crimine, cercando di mostrare tutto con lo stesso colore: tutti arraffoni, tutti ladri, tutti corrotti. Questo è il miglior modo per far vincere i peggiori. Se tutti sono peggiori, solo chi critica violentemente è il migliore. Questo è il trucco di certa stampa e di certi furbi. Io in questo pantano non riesco a starci. Ah, mi avevi chiesto tre cose. Scusa, mi sono sfogato...»
Sinceramente, restituiresti tutto quello che hai ottenuto in cambio della possibilità di impiastricciarti col sugo di una pizza comprata per strada?
«Avrei voluto fare lo scrittore, arrivare a molte persone. Non avevo previsto quello che è accaduto. Non credo sia giusto rispondere a questa domanda. Perché in fondo ho fatto il mio lavoro e non credo sia giusto dover rinunciare alla normalità della propria vita per ciò che si è scritto. Questo mi tormenta l’anima. Non mi rassegnerò mai. Era giusto fare ciò che ho fatto senza pagarne le conseguenze».
Giravi nelle piazze di spaccio con la tua Vespa e una penna in tasca. Un rischio che solo chi conosce queste zone può capire bene. Non credi di aver ottenuto esattamente ciò che stavi cercando?
«Me la sono cercata. Hai ragione. Avrei dovuto essere più prudente, ma questa lezione insegna una cosa: l’unità tra lettori-cittadini e la conoscenza di determinate dinamiche può davvero generare un cortocircuito imprevedibile. Quando è stato pubblicato Gomorra e dopo Vieni via con me, ho davvero creduto per un attimo che le cose potessero cambiare. E i numeri di Gomorra e Vieni via con me dimostravano che poteva accadere. Ho la sensazione che tutto si sia fermato. Ora sta alla politica io ho cercato una battaglia culturale».
Sei intrappolato nell’antimafia. Se parli di altro c’è chi ti sbrana. Perché non esci da questa trappola e lavori di fantasia? Penso a «Supersantos» e a «Il contrario della morte», che hanno venduto benissimo.
«Non mi sono mai sentito uno scrittore antimafia. Solo uno scrittore. I libri che ho scritto sono storie vere scritte nello stile del romanzo. Sì, forse è il tempo di intraprendere le strade che avevo percorso con Supersantos e Il contrario della morte. Sino ad ora ho cercato di seguire il percorso di Vollmann, Tosches, Mailer, Stajano, gli scritti reportagistici di Parise. Affluente narrativo e affluente saggistico pronti a riposare nel medesimo letto, come auspicava Capote. Ora vorrei separarli. Provare a seguire il flusso narrativo da una parte e quello saggistico dall’altra. Vediamo cosa accade. Sperimentare è l’unica forza vitale di uno scrittore». Le offerte in politica non ti sono mancate. Ti sei impegnato come scrittore per migliorare la società in cui vivi: fare il politico non sarebbe un passo ulteriore in questo senso?
«Non credo. L’unico ruolo politico che può avere uno scrittore è lontano dal potere. La sua utilità sono le sue analisi, il suo impegno, i suoi consigli, le sue critiche. Questo è l’impegno politico migliore per chi lavora con le parole».
Scrittori e tv non sempre vanno d’accordo. Lo share è una brutta bestia che tu, però, hai dato prova di saper domare.
«In tv mi piace andare quando ho qualcosa da dire. Soprattutto usare un linguaggio diverso da quello televisivo classico. Alle spalle della tv, però, c’è tutto un mondo che considero agonizzante, che la vuole sporca, schifosa e idiota. Come dire: la tv è solo così, chi prova a cambiarla è un trombone, un moralista. Se stai in tv devi far ridere, sghignazzare, sfottere, sbraitare e sommergerti nel talk. A me piace la tv narrativa, ragionata, raccontata, è quella che ho provato a fare, non sarei disposto a farne un’altra».
Ti vogliono al Festival di Sanremo per il secondo anno consecutivo. Ma se ci vai, lo sai bene, qualcuno sarà lì pronto a massacrarti.
«Anche tu con questa domanda?»
Va bene, ti dico la verità.
«Dimmi...»
Non è per me, i per mia nonna. È una tua fan, dice che guarda il festival solo se ci sei tu.
«Allora accetto la domanda. Ma risponderò privatamente a tua nonna».