Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 20/12/2013, 20 dicembre 2013
QUEL «NO» AL MERCATO È UN REGALO ALLE BANCHE
Chi deve possedere la Banca d’Italia? Fino a qualche anno fa, poteva sembrare una domanda puramente accademica. Oggi, invece, è al centro del dibattito di politica economica.
A renderla così attuale, non è l’esigenza, già sottolineata dalla Legge sul Risparmio del 2005, di trovare una sistemazione più adeguata della proprietà della nostra Banca Centrale, ma una serie di interessi diversi: aiutare le banche a ricapitalizzarsi e aumentare il gettito fiscale. Per evitare di cadere vittime della pressione mediatica esercitata da questi interessi è importante analizzare il quesito dal punto di vista della teoria economica. L’allocazione della proprietà - ci insegna la moderna teoria economica - è importante non solo perché conferisce diritti patrimoniali (un flusso di dividendi), ma soprattutto perché attribuisce il diritto di controllo (ovvero il diritto di prendere decisioni). La proprietà, dunque, deve spettare a chi eserciterà questo diritto di controllo nel modo migliore, ovvero nel modo che massimizza le dimensioni della torta economica da spartire. Per questo motivo la proprietà delle imprese deve essere nelle mani dei privati che hanno l’interesse ad investire ed aumentarne il valore. Ma per lo stesso motivo, la proprietà delle prigioni è meglio lasciata nelle mani dello stato: i privati tendono a massimizzare i profitti, ignorando i diritti dei prigionieri (anche se le condizioni delle prigioni italiane possono far dubitare della validità dell’argomento, vi invito a riflettere come sarebbero nelle mani di alcuni capitalisti nostrani).
Per decidere chi debba possedere la Banca d’Italia è necessario capire quali funzioni essa svolge. Tradizionalmente, la Banca d’Italia svolgeva due funzioni: era l’istituto di emissione, che stampava moneta e regolava la politica monetaria, ed era il regolatore e supervisore del sistema bancario. Entrambe queste funzioni sono state ridimensionate dall’unificazione monetaria. Oggi la Banca d’Italia svolge il ruolo di istituto di emissione solo per conto e sotto la supervisione della Banca Centrale Europea. Non gestisce autonomamente la politica monetaria, ma contribuisce solo con il suo rappresentate alla determinazione della politica monetaria europea. Infine, svolge il ruolo di regolatore e supervisore del sistema bancario, anche se gli ultimi accordi trasferiscono il ruolo di supervisione dei maggiori istituti bancari alla Bce.
Quale tipo di proprietà garantisce la politica monetaria migliore? La maggior parte dei governi vuole mantenere l’inflazione contenuta nel lungo periodo, ma tutti sono tentati dall’alimentarla nel breve - soprattutto sotto elezioni - per aumentare temporaneamente l’occupazione. Per evitare questo conflitto, la politica monetaria deve essere affidata ad un organismo indipendente. Per quanto tecniche, però, le decisioni di politica monetaria hanno effetti redistributivi, e quindi sono decisioni politiche. In aggiunta i proventi di un istituto di emissione vengono principalmente dalla facoltà di stampare moneta (il cosiddetto signoraggio). Trattandosi a tutti gli effetti di una tassa, tali proventi devono appartenere allo Stato.
Il compromesso raggiunto dalla legge bancaria del 1936 aveva una sua logica. La nostra banca centrale era formalmente posseduta da tutte le banche (che eleggevano il Consiglio Superiore della Banca d’Italia), ma il governatore veniva nominato dal governo. Per garantire alla Banca un’indipendenza anche finanziaria, i proventi del signoraggio andavano alla banca centrale, che poi li trasferiva al Tesoro al netto delle spese e dei dividendi (limitati) pagati ai detentori delle quote. Formalmente gli azionisti non avevano diritto di interferire nelle decisioni di politica monetaria o nell’attività regolatoria.
Con il trasferimento della politica monetaria a Francoforte, questo compromesso perse la sua ragion d’essere. La funzione principale della Banca d’Italia diventava quello di supervisione delle banche. Ed avere il supervisore controllato dalle banche (che nel frattempo erano state privatizzate) era come mettere la volpe a guardia del pollaio. Il consolidamento del settore bancario aveva ulteriormente aggravato il problema, perché le quote di Bankitalia, prima divise tra molti istituti, erano concentrate per il 30.3% in Banca Intesa e per il 22.1% in UniCredit. La tensione esplose nel 2005, quando l’allora governatore Fazio si mise a dirigere, invece che supervisionare, il sistema bancario. Da qui l’indicazione della Legge sul Risparmio di trasferire le quote di Bankitalia allo Stato o ad altri enti pubblici.
La nazionalizzazione di Bankitalia decisa dalla legge sul Risparmio era la soluzione logica. D’altra parte, le principali Banche centrali Europee (dalla Bundesbank alla Banca di Spagna, dalla Banca d’Inghilterra a quella di Francia) sono di proprietà dello Stato. L’unico dubbio è quale sia l’indennizzo giusto da pagare agli attuali detentori. Da un punto di vista teorico la risposta è molto semplice: il valore scontato dei dividendi futuri. Ma quali dividendi? I tre saggi nominati da Bankitalia hanno assunto che i dividendi futuri aumentino allo stesso tasso di crescita registrato negli ultimi dieci anni: ovvero il 5%. In questo modo sono arrivati ad una valutazione tra i 5 e i 7.5 miliardi di euro.
Questa valutazione è altamente discutibile. Se il tasso di crescita dei dividendi al 5% fosse permanente, il valore delle quote sarebbe infinito: perché il tasso a cui sono scontati questi dividendi (4.6%) è inferiore al tasso di crescita dei dividendi stessi. Per questo i saggi interrompono la crescita al 5% dopo 20 o 30 anni ( da qui il range di valutazioni), ed impongono da lì in poi un tasso arbitrario di crescita del 3%. Con questi calcoli arrivano ad un valore tra i 5 e i 7.5 miliardi di euro. Per non mancare di generosità il governo ha scelto il valore massimo: 7.5 miliardi.
Il valore stimato dai saggi dipende crucialmente da tre ipotesi: che il tasso di crescita sia effettivamente del 5%, che duri a tale livello per 20-30 anni, e che dopo rimanga per sempre al 3%. In genere, nei modelli di valutazione si fanno previsioni di crescita "anormale" (come una crescita del 5% con un tasso di sconto del 4.6%) per non più di 5 anni. Poi, a valore terminale, si usa un tasso di crescita in linea con l’inflazione. Con queste due semplici correzioni, la valutazione si riduce a 3.3 miliardi, meno della metà di quella decisa dal governo. La differenza è un regalo alle banche, in particolar modo Banca Intesa e UniCredit: un regalo pari a circa un anno di Imu sulla prima casa.
Come se non bastasse la proposta del governo non prevede una nazionalizzazione di Bankitalia, ma solo una redistribuzione delle quote tra istituzioni finanziarie. Se questo fosse l’obiettivo finale, non ci sarebbe bisogno di una valutazione esterna: basterebbe lasciare al mercato determinare il prezzo. La rivalutazione del capitale, però, ha anche un altra funzione. Lo Statuto di Bankitalia fissa il dividendo al 6% del capitale. Rivalutando il capitale, i dividendi futuri aumenterebbero da 70 milioni a 500 milioni, riducendo le entrate dello stato per la differenza.
Invece che a correggere un problema istituzionale, la proposta del governo sembra andare nella direzione di aiutare le banche a ricapitalizzarsi a spese dello stato, che si fa carico di comprare le quote in mancanza di compratori privati. Pur perdendoci nel lungo periodo, lo Stato ci guadagna nel breve: riceve subito delle imposte sulle plusvalenze che può contabilizzare a riduzione del deficit. Se questa manovra l’avesse ideata Tremonti, la Banca d’Italia l’avrebbe stigmatizzata come "finanza creativa". Visto che viene da un ministro ex banchiere centrale, come dobbiamo chiamarla?