Filippo Facci, Libero 20/12/2013, 20 dicembre 2013
NEOPROLETARIATO
Inventariare i «forconi» col pallottoliere significa averne capito poco. La loro rilevanza sta proprio nella loro apparente irrilevanza, nella genericità della loro composizione, nell’imprendibilità delle loro pretese. Non c’è da parlarci, da riceverli per ascoltarne le «richieste». A leggere giornali e blog si apprende che sono pastori, agricoltori, allevatori, pescatori, camionisti, ambulanti, commercianti, esercenti, artigiani, studenti, ultras, ex leghisti, precari, movimentisti, postfascisti, secessionisti, anti-fisco, imprenditori falliti, esodati, disoccupati, operai, gente dei centri sociali ed ex candidati di listarelle. L’ansia di classificarli e schierarli, cercando conforto nelle categorie del passato, produce solo caricature giornalistiche e impedisce di riconoscere l’unicità del presente. Non c’entrano gli Anni Sessanta, Settanta, Ottanta, o ancora Masaniello, Cola di Rienzo e altre cazzate. I forconi non sono una parte sociale: sono un popolo. Per la prima volta dal Dopoguerra - compresi i tempi della «maggioranza silenziosa» - è sceso in piazza l’embrione di un popolo intero, e poco conta quanti siano effettivamente andati alla tal manifestazione e chi invece no, poco contano i distinguo: tanto, di veri capi, non ce ne sono. C’è un popolo intero che non regge più un modello di sviluppo che si è messo a galoppare dall’og - gi al domani. Euro, Europa, mercati, banche, globalizzazione, tecnocrazia, democrazia negata: ciascuno lo chiama come vuole. Qualsiasi cosa sia, è un modello che mostra la corda, e che rischia quella del cappio.