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 2013  dicembre 16 Lunedì calendario

GALLIANI È

Anni fa, Adriano Galliani si lanciò in una frase affascinante e spericolata: «Il Milan del futuro dovrà ricordare l’organizzazione di società come Warner Bros e Walt Disney». Sarà per questo che quando ha visto minato il suo, di futuro, non ce l’ha fatta. Urlando il disagio, annunciando le dimissioni (che sì, sono rientrate creando un mostro a due teste che solo Berlusconi, ma ancora fanno rumore) e reclamando il proprio prestigio, violato da insani giochi di potere di aspiranti rampolle. E pur in presenza di un personaggio controverso (amato fino a un certo punto dai milanisti, quasi mai dagli altri) tutto quanto avveniva in quel momento è sembrato irrispettoso di una storia lunga e pure vincente, di una professionalità partita sì dalle antenne, fattasi largo con la televisione, ma formatasi nel calcio e da vedere asetticamente, liberi dalle partigianerie.
Galliani è un manager che ama raccontare di essere da sempre tanto innamorato del calcio da scappare di casa a dieci anni (o meglio, scappare mentre era in vacanza in Liguria con i genitori) per andare a vedere una partita a Genova. Galliani è un milanista nato juventino (lo è stato fino all’86), fede giovanile ammessa solo quattro anni fa («Come tutti i monzesi, che non si sentono milanesi, da ragazzo simpatizzavo per la Juventus. In Brianza è così, ma l’altra squadra che seguivo era il Milan. Mai l’Inter»). Poi, Galliani è un milanista e basta. Il cuore, ma anche il fegato e un bel po’ di anima, del Milan berlusconiano, cosa che porta a muoversi in un campo minato di antipatie multiple e complica il giudizio. Epperò ognuno conservi la sua fede e guardi pure ai numeri: Galliani è l’uomo del Milan degli olandesi, di Sheva, delle Coppe Campioni e Intercontinentali. Galliani è quella contabilità ripetuta nei giorni dell’ira, Galliani è: 8 scudetti, una coppa Italia, 6 supercoppe italiane, 5 Coppe dei Campioni, 5 Supercoppe Uefa, 2 Coppe Intercontinentali e una coppa del mondo per club.
Prima del calcio, il geometra Galliani Adriano, figlio di un segretario comunale e titolare di una piccola impresa di trasporti, aveva lavorato per otto anni in Comune a Monza. Nato manager, aveva anche acquistato uno stabilimento balneare a Vieste: «Andavo in 500 da Monza fino al profondo sud: l’autostrada allora arrivava solo fino a Bologna, poi bisognava fare tutta la costa adriatica». Poi fiutò l’occasione e, ipotecando il proprio appartamento, rilevò l’Elettronica Industriale, azienda di Lissone specializzata in apparecchiature per la ricezione dei segnali televisivi, da Ottorino Barbuti (nel ’75, con il PCI in odore di vittoria alle politiche, alcuni imprenditori preferivano vendere le aziende rapidamente anche se a prezzi bassi). Niente in confronto agli eventuali 50 milioni di euro di buonuscita (dovesse lasciare il Milan). Quelli si spiegano con la fiducia, cieca, guadagnatosi da Silvio Berlusconi.
È nel 1979 che il geometra diventa Galliani. Incontra Berlusconi (e Fedele Confalonieri) imprenditore in rampa di lancio al quale propone di allargare il segnale televisivo in tutta Italia fino a creare, nel 1980, Canale 5. Berlusconi vuole sgomitare con la Rai, arrivare a tre canali, convince Galliani a lavorare per lui comprando il cinquanta per cento di Elettronica Industriale; poi lo porta a Telemilano, poi in Fininvest, infine al Milan, scegliendo di partire da una società quasi fallita per arrivare a creare Gli Invincibili (stagione 1991-1992). Berlusconi prima si fida di Galliani come tecnico per l’espansione della tv, poi del Galliani vicepresidente del Monza (lo era diventato nel 1984, dopo essere entrato nella proprietà nel ’75) per il calcio. «Per Berlusconi l’acquisto del Milan fu solo e soltanto una questione di cuore. Gli ricordava le domeniche trascorse con suo padre a tifare per i rossoneri». E quando l’ex geometra passa al Milan (20 febbraio 1986), si trova a gestire l’eredità di Farina e i conti setacciati dalla Finanza. Certo, erano i tempi dell’elicottero in campo all’Arena con in sottofondo la cavalcata delle valchirie, ma c’era anche un fallimento da evitare mettendo soldi freschi: «Una delle prime cose che ho fatto nel calcio non è stato prendere Gullit e Van Basten, ma andare a pagare il conto dal salumiere e dal farmacista, panettiere e altri di Solbiate Arno che non prendevano soldi da diversi mesi», racconta.
Poi si è fatto strada senza atteggiarsi, e forse questo lo ha reso vulnerabile alla satira. “La pelata”, le grinze sotto gli occhi e le espressioni assai buffe, così somigliante allo Zio Fester ma anche ad Alan Rickman quando recita la parte di De Valera in Michael Collins (capelli a parte), e soprattutto a Teocoli che imita Galliani, in tribuna si è sentito libero da altri occhi proprio mentre obiettivi e telecamere erano puntati su lui, ché qualcosa fuori poteva sempre venire. Da qui è nato una sorta di mito parallelo di quest’uomo dalle mille facce e nemmeno una impassibile. Gli occhi sgranati, il muso verso il basso, le urla sguaiate, i pugni stretti, le mani sul viso hanno reso Galliani un animale da tribuna, sempre in cravatta gialla di Hermès e giacche blu di Tincati e sempre in sofferenza, qualunque sia il risultato (anche quando esulta, sembra stia soffrendo). Fino alla foto da separati in casa con Barbara Berlusconi, che sembra felice di averlo accanto almeno quanto Michelle Obama durante il selfie del marito con la premier danese.
Galliani è quello delle esultanze assurde, ma non solo. Ha scalato anche i ruoli sociali al punto che le sue dimissioni e la successiva marcia indietro sono diventate immediatamente notizia di apertura dei quotidiani on line, provocando nasi arricciati e tweet un po’ snob di chi ancora non riesce a contestualizzare il valore del calcio ricacciandolo nell’angolo dei passatempi rozzi e non riusciva dunque a dare un valore alla separazione tra Berlusconi, appena decaduto, e chi lo aveva accompagnato nel mondo del calcio, rendendo agibile il trampolino che poi ha lanciato il presidente in politica.
Le scalate sono state il forte di Galliani («Mio padre mi diceva di lavorare tanto: era l’unico modo per crescere nella scala sociale»). Da amministratore delegato è diventato anche vice presidente vicario e principale responsabile economico, da vicepresidente di Lega è poi stato eletto presidente (nel 2002), fino al Globe Soccer Awards alla carriera (2010) e alla Hall of fame del calcio italiano (2011). Non riconoscergli la capacità di fare calcio è una cattiveria. Anche adesso che gli chiedono di organizzare pranzi di nozze all’altezza dei precedenti, avendo fichi secchi (o poco più) come piatto da servire. Anche ora che gli imputano di avere Allegri in panchina dimenticando che pure con Allegri ha vinto un campionato.
Ma in fondo non si è mai preoccupato del giudizio altrui: Galliani è uno di quelli che guarda al risultato e se ne frega. Non si è preoccupato al tempo del gol di Muntari e di tenerne una foto sul cellulare. Disse: «Vado in giro sempre col mio telefonino, guardo e vedo il gol. Ho sempre questa immagine per non dimenticare quello che è successo», sapendo che avrebbe attirato ire varie e accatastato sfottò anche per il futuro. Non ci pensava nemmeno nel giorno che più delle vittorie ha segnato la sua fama: Galliani è quello di Marsiglia, quello che ritirò la squadra in un quarto di finale di Coppa dei Campioni, in un giorno ancora da raccontare.
Il 20 marzo del 1991, lo stesso giorno in cui il figlio di Eric Clapton e Lory Del Santo precipitava a New York da una finestra al 53° piano del grattacielo in cui abitava il padre, nasceva ad Ascoli Mattia Destro, il giorno dopo sarebbe stata primavera e di sera, però, si giocava al Velodrome di Marsiglia. Era il ritorno, all’andata era finita 1-1, i diavoli perdevano e si metteva male ma stava per mettersi peggio. Perché all’ottantasettesimo, dodici minuti dopo il gol di Chris Waddle che stava facendo finire l’avventura, si spegne uno dei quattro riflettori, poi si riaccende un po’, Baresi, Gullit e altri chiedono di attendere che la luce torni del tutto, Karlsson, fischietto svedese dice che basta e Galliani dice di no. Anzi, scende in campo (era in tribuna) in improbabile trench beige che nemmeno Humphrey Bogart, dita a indicare la luce che non c’è e nervi tirati. «Via! Via! Andiamo via!» (qui al minuto 1.00) e gesti eloquenti per convincere i suoi a uscire. Così la partita non riprese, il Milan la perse a tavolino, annunciò ricorso e poi riconobbe la sconfitta ma intanto incassò un anno di stop dall’Europa, consolandosi poi con l’acquisto di Papin l’anno dopo, che allora giocava proprio nel Marsiglia. Una figuraccia. «Chissà com’è venuto in mente ad Adriano Galliani di imbastire quella sceneggiata sul campo, che ha richiamato alla memoria quella dell’emiro kuwaitiano ai mondiali dell’ 82», scrisse Gianni Mura mantenendosi nella critiche mentre ormai erano partiti gli sberleffi.
Così, Galliani è “quello delle luci di Marsiglia”, storia che nasconde ancora qualcosa di mai detto: «La verità su Marsiglia la lascerò nel mio testamento». Ma Galliani è anche quello dei capolavori di mercato: Seedorf e Pirlo dall’Inter in cambio di Coco e Guglielminpietro, ma soprattutto l’arrivo di Van Basten, Gullit e Rijkaard. Per l’ultimo il lavoro fu d’astuzia: fuori dalla sede dello Sporting Lisbona c’erano i tifosi schierati per non far cedere l’olandese, Galliani ottenne la firma e scappò da un’uscita secondaria con il contratto infilato nelle mutande. Dato per valido nonostante la provenienza quell’accordo creò il Milan più forte, ma non chiuse il ciclo di acquisti straordinari di chi ha portato Weah, Savićević, Baggio, Sheva e Kaká, vincendo e durando.
Durando, si può sbagliare e non si sfugge–è chiaro–ai flop: Ricardo Oliveira, che doveva prendere il posto di Shevchenko nell’attacco e nei cuori di una tifoseria affranta, costò 17 milioni di euro più il cartellino dello svizzero Vogel, per tre gol in campionato, due in Coppa e la cessione in prestito al Saragozza per 2 milioni di euro, e se gli si possono perdonare Futre, Bogarde, Marcio Amoroso, non c’è da ridere (almeno per i milanisti) se si pensa che nel 1996 arrivò a patti con il Bordeaux per Dugarry e non per Zidane, che invece finì alla Juve. Che sarà anche stata la sua prima squadra del cuore, «Ma dopo 25 anni di Milan il tifo per la Juve è andato in prescrizione», e bisogna credergli se anche uno terribilmente spontaneo come Gattuso ha detto che «non c’è nessuno più milanista di Galliani». Il passato non conta, altrimenti si può dire anche che in passato il nostro ha persino avuto i capelli e che tra un acquisto e l’altro si è accompagnato a belle donne, ha avuto tre matrimoni (il secondo con Daniela Rosati, presentatrice Mediaset di programmi sulla salute, il terzo nel 2004 con Malika El Hazzazi, 31 enne modella marocchina e durato fino al 2008), così come bella e giovane è l’ultima compagna (la brasiliana Helga Costa).
Oppure il passato conta, perché a volte è quanto di più sincero sulla nostra natura: fuggito a dieci anni a Genova per una partita, si diceva. Chiaro il motivo: «D’estate eravamo ad Arenzano in vacanza, io lessi che la telecronaca della finalissima del campionato del mondo tra Ungheria e Germania Ovest sarebbe stata trasmessa, a cura del quotidiano genovese il Secolo XIX, in piazza De Ferrari, su un grande schermo. La tivù in pratica partiva allora, c’erano pochi televisori… La tentazione fu irresistibile. Presi un autobus, andai a Genova di nascosto e vidi questa indimenticabile partita in bianco e nero, vinta dai tedeschi contro tutti i pronostici. Tornai la sera tardi in pensione, accolto a botte dai miei genitori, spaventati per la mia scomparsa». Ed è uno degli aneddoti e retroscena che racconta in una intervista a Cesare Lanza che è una delle poche veramente a cuore aperto, non perché abbia l’abitudine a nascondere le emozioni (le trattative magari sì), ma perché domanda dopo domanda attraversa un’intera carriera, dall’Elettronica Industriale al tetto del mondo pallonaro, fatta per gran parte sotto braccio con Berlusconi, con il quale continua a darsi del lei (ed ecco perché, in mezzo a tanto reciproca deferenza, quello di Barbara pare un capriccio irriverente). Ma non è l’unica fuga della sua vita, per il pallone: c’è quella mattina di un sabato di tanti anni fa. Passeggiando incontrò amici che andavano a vedere Foggia-Cesena in macchina, si aggregò per poi trovare, sotto la pioggia del lunedì seguente, la porta di casa chiusa e la moglie che non voleva saperne di aprire, costringendolo ad andare a dormire dalla sorella. E la finale di Wembley del 1963 del Milan con il Benfica, quella della prima Coppa Campioni rossonera: si giocava di pomeriggio, la Rai l’avrebbe trasmessa in differita la sera e lui, con altri amici, andò a Chiasso per vederla in diretta sulla tv della Svizzera italiana.
Galliani ha l’ombra dell’affare Lentini e dei presunti fondi neri (prosciolto per intervenuta prescrizione) e cinque mesi di squalifica nel calderone di Calciopoli («Sono stato condannato per una telefonata di 106 secondi con Meani in cui gli chiedevo se avesse protestato per un gol annullato a Shevchenko»), ma anche quasi tutto al suo petto lo scudetto di Zaccheroni e pure quello di Allegri, quelli figli più del suo saper fare calcio (e gestire le turbolenze del padrone) che di una ricchezza considerevole come quella dei cicli più vincenti, giustificando Ancelotti, che ha avuto il tempo di conoscerlo bene, e la sua definizione di “Cristiano Ronaldo dei dirigenti”. Non si schioda da “I miglior anni della nostra vita” di Renato Zero quando gli si chiede la colonna sonora della sua avventura al Milan e confessa di non dormire la notte dopo le sconfitte, quindi che i rigori di Istanbul nel 2005 (la rimonta del Liverpool da 0-3 a 3-3 con Champions soffiata all’ultima appendice di finale) sono il più ricorrente degli incubi e che sì, «quando vinciamo scatta la mia esultanza, che trovo eccessiva e un po’ scomposta. Però non me ne rendo conto. Solo rivedendo la tv mi accorgo di quello che ho fatto allo stadio. Faccio troppo casino».
A un passo dalle dimissioni, prima della tregua di cartapesta voluta da Berlusconi, ha sventolato i propri successi: piaccia o meno, rimane il dirigente calcistico che ha vinto più trofei Uefa nella storia del calcio. Lo faceva durante gli sberleffi, sempre perché in fin dei conti non lo preoccupano, ma magari non si aspettava che per annunciare le sue dimissioni il Tg3 scegliesse di mettere in sottofondo l’inno dell’Inter, e che Barbara fosse così spietata e cinica nel cercare un ricambio generazionale del quale lo stesso Galliani è sostenitore, ma non in questo modo e comunque non ora. Perché Adriano non si vede fuori dal calcio, nonostante abbia ribadito, un minuto dopo la pace che «Berlusconi sarà il mio presidente per tutta la vita. Lo era quando ero a Mediaset e a Fininvest, lo è quando sono al Milan», perché forse è quello che pensa ma soprattutto è quello che pensa Berlusconi, che stava ritagliando per lui un ruolo nella rediviva Forza Italia (e il tentativo politico non sarebbe nemmeno una novità per Galliani, aspirante sindaco della Democrazia Cristiana quando era a Monza, ma nel ’75 fu primo dei non eletti) pur di avere ancora il prezioso compagno di viaggio con sé e non turbare troppo la bella figliola.
Ma il calcio (lui dice non il PSG) è la sua dannazione e non è un caso se la voce palesemente contro le sue capacità sia stata quasi unicamente quella di Gianni Rivera («La sua incompetenza è evidente») e per trovarne altre sia necessario faticare. Perché il favoloso periodo del Milan di Sacchi, che in tre anni vinse uno scudetto, due Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, giocando un calcio di rigogliosa bellezza è un vanto anche per chi milanista non è (e dunque non capirà, ma è pure abbastanza normale) e la scia di novità che ha portato alla trasformazione di una società sommersa dai debiti in un club invidiato e vincente, solo ora un po’ meno ma sono scricchiolii di un impero che per il calcio non può fare eccezione.
Quindi per ora resta, ma ormai ha preso le distanze dal se stesso precedente, sa di poter essere maltrattato e messo in condizioni di andare da un momento all’altro in modi che sarebbero dolorosi e sì offensivi, altro che le mille parodie di cui è oggetto. Perché senza Milan forse Galliani chiuderebbe la sua parentesi con Berlusconi, l’uomo senza il quale «sarei ancora un piccolo imprenditore brianzolo alla guida dell’Elettronica Industriale, l’azienda che mi permise di conoscere il presidente». E sarebbe troppo triste, per uno che ostenta fierezza e racconta di aver imparato a leggere dalla Gazzetta dello Sport. Mentre montava antenne e le sintonizzava sul suo futuro. Quello che doveva essere tra la Warner Bros e Walt Disney, mentre il presente pare una di quelle vecchie telenovele brasiliane in cui i figli scalpitano per l’eredità.