Federico Fubini, la Repubblica 20/12/2013, 20 dicembre 2013
L’IPOTECA TEDESCA SULL’UNIONE BANCARIA
I TEDESCHI la vedono come una sindrome tipicamente italiana, eppure nell’unione bancaria anche la Germania presenta sintomi che la ricordano da vicino. La critica di Berlino è nota.
NON appena nel 2012 la Bce stese una rete di sicurezza attorno al suo debito, l’Italia dimenticò le promesse di modernizzarsi per rassicurare i propri creditori. Diventava di nuovo possibile illudersi che non servisse. Ed è l’ennesimo paradosso di questa crisi vecchia già di sei anni, che la Germania abbia finito per cadere nella stessa trappola. Passata la fase acuta del terremoto sull’euro con la svolta della Bce di un anno e mezzo fa, anche il governo di Angela Merkel ha messo da parte gli impegni che lasciavano sperare in un’architettura credibile per l’unione bancaria e la moneta unica. In queste condizioni, le amnesie del Paese guida del Nord e di quello del Sud rischiano di trasformare una crisi finanziaria nella disfunzione cronica della seconda area monetaria del pianeta.
Basta un’occhiata ai documenti del Consiglio europeo per misurare la distanza fra il disegno di appena un anno fa e l’unione bancaria che si sta realizzando in questi giorni. Il 14 dicembre 2012 i capi di Stato e di governo, Angela Merkel inclusa, prendevano un impegno che in teoria doveva far somigliare un po’ di più l’area euro agli Stati Uniti: il fondo salvataggi europeo, dissero in modo ufficiale, «avrà la possibilità di ricapitalizzare direttamente le banche». Doveva poterlo fare perché era «imperativo spezzare il circolo vizioso fra le banche e il debito sovrano».
Fuori dal gergo di Bruxelles, il messaggio era chiaro: la crisi non si sarebbe mai risolta senza un’unione bancaria in parte simile a quella americana. Negli Stati Uniti il Tesoro era entrato nel capitale delle banche con centinaia di miliardi dopo il crac di Lehman e un’agenzia nazionale, la Federal Deposit Insurance Corporation, finanziava la liquidazione degli istituti insolventi nei 50 Stati della nazione. L’Europa invece fino a quel momento aveva seguito un modello opposto. Ciascun Paese era lasciato a se stesso nel gestire il collasso di banche dal bilancio pari a varie volte il suo Pil. E le banche erano lasciate a se stesse nel fare i conti con la crisi sul debito pubblico dei rispettivi Paesi d’origine. Per salvare le proprie banche, l’Ir-landa era stata costretta a far salire il deficit al 32% del Pil, il debito oltre il 100% e infine a chiedere un prestito d’emergenza alla Ue e all’Fmi. Il governo di Madrid aveva dovuto prendere un aiuto europeo da 40 miliardi, coprendosi di debiti, per ricapitalizzare o liquidare le banche iberiche in difficoltà. In Grecia la stessa dinamica si era innescata in direzione opposta: le banche erano state spazzate via per aver investito in titoli di Stato di Atene.
L’unione bancaria doveva sradicare dalla mente degli investitori il timore di vedere in Europa nuove spirali del genere. Ma se questo era l’obiettivo, per ora è fallito. Anche dopo la sua terza rielezione, la cancelliera Merkel si è opposta a ciò che aveva accettato un anno fa. Il «meccanismo unico di risoluzione», costituito da contributi delle banche stesse, funzionerà in pieno solo fra dieci anni. Anche allora varrà appena 55 miliardi di euro, quanto basta per un unico intervento di medie dimensioni, a fronte di bilanci bancari che in totale valgono 25 mila miliardi. Lo strumento per garantire una gestione senza panico di un collasso d’impresa varrà (a pieno regime) lo 0,22% dei bilanci che dovrebbe in qualche modo assicurare. Quanto al fondo salvataggi europeo costituito dai governi fino a 700 miliardi, l’Esm, anche qui la marcia indietro è completa: potrà prestare risorse a un governo che deve gestire il fallimento di un istituto, ma non intervenire direttamente. L’impegno di un anno fa, a causa di Berlino, è rimasto lettera morta. Il legame pericoloso fra le banche e i loro governi resta intatto.
Non sarebbe un problema, se le finanze pubbliche e private fossero sane ovunque. Ma non lo sono, dunque gli investitori resteranno diffidenti dal prestare dall’estero a Paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia o il Portogallo. Non è un rischio da poco, se si guardano i dati della Banca dei regolamenti internazionali: oggi le banche tedesche sono esposte sull’Italia per 150 miliardi in meno rispetto al 2008, quelle francesi per circa 200. In queste condizioni la liquidità continuerà a essere una risorsa scarsa, i tassi d’interesse troppo alti anche per le imprese sane e la stretta al credito continuerà a deprimere la dinamica dei prezzi. Un’unione bancaria come quella che sta nascendo non può che aggravare i rischi di deflazione in Europa.
In un certo senso, tutto questo è il frutto della diffidenza. Merkel ha smesso di fidarsi dell’Italia e non intende rischiare il denaro dei propri elettori per un Paese che non sta ai patti. Ma questa stessa sfiducia finirà per mettere la Bce in una posizione impossibile: costretta a combattere la crisi e la deflazione con le stesse armi improprie che Berlino avrebbe voluto bandire per sempre.