Fabrizio Goria, Linkiesta 18/12/2013, 18 dicembre 2013
L’UNIONE BANCARIA È SOLO UNA SOMMA DI LACUNE
Imperfetta doveva essere, imperfetta sarà. L’unione bancaria europea, primo vero pilastro dell’eurozona del futuro, avrà le connotazioni che da sempre caratterizzano il bizantinismo comunitario. Il concetto è chiaro. La Germania non vuole che la crisi sia risolta dall’unione bancaria. Se così fosse la fetta più grande del potere sarebbe in seno alla Banca centrale europea (Bce). E Berlino rifiuta che sia così. Vuole invece che i mercati finanziari chiedano di più, ovvero quell’unione fiscale che permetterebbe ad Angela Merkel di mantenere la leadership della zona euro. Lo aveva detto su queste pagine Carlo Altomonte, lo ripetono sottotraccia diversi funzionari europei, anche se a denti stretti. Non stupiamoci quindi se dall’ultimo Consiglio europeo dell’anno, che inizia domani, usciranno solo belle parole e vaghi concetti sul futuro dell’Unione economica e monetaria.
L’accordo di massima trovato durante la scorsa notte sul Single resolution mechanism (Srm) è troppo debole per tranquillizzare gli investitori. Il grande quesito prima del vertice era sui backstop, sui supporti da dare alle banche nel caso queste non trovassero capitale fresco sul mercato, qualora dovessero effettuare una ricapitalizzazione. E dato che gli aumenti di capitale, dopo l’Asset quality review (Aqr) della Bce, saranno inevitabili, meglio avere le idee chiare su cosa fare. Avere un Piano B è sempre utile. E nel caso dell’eurozona, meglio avere anche un Piano C, o D. Non si sa mai. Eppure, così non è stato. Urgeva un messaggio chiaro e deciso, ne è arrivato uno incerto e tentennante. E c’è da scommettere che l’accordo finale sarà molto lontano da ciò che invece servirebbe per ripristinare la fiducia all’interno dell’eurozona.
Il primo punto sono i tempi. Si parla del 2025. Sì, avete letto bene: 2025. È in quella data che il meccanismo di backstop dovrebbe essere completamente a regime. O almeno questo è il limite che è stato messo dal consiglio dei ministri delle Finanze della zona euro, l’Ecofin. Ma è totalmente senza senso pensare che da qui al 2025 non ci possano essere crisi bancarie talmente grandi da rendere necessario un intervento. Pensiamo all’Asset quality review, che sarà completata, insieme con gli stress test, nel novembre 2014. In quel momento sarà chiaro quanti soldi serviranno per le ricapitalizzazioni delle circa 130 banche esaminate. Secondo i dati raccolti dal Bruegel, il think tank di Bruxelles, c’è un range molto ampio, a seconda della profondità della due diligence. Si passa dallo scenario migliore, 50 miliardi di euro, allo scenario peggiore, 600 miliardi. Ed è palese che qualche attore bancario non riuscirà a raccogliere capitale sul mercato in modo autonomo. È quindi controproducente pensare di costruire una rete di protezione, questo dovrebbe essere il backstop scheme, in una tempistica così lunga. Le risposte che servono, occorrono ora, non nel 2025.
Il secondo punto è il fondo comune di risoluzione. Del valore massimo di 55 miliardi di euro, sarà a riempimento progressivo. Traduzione: ci vorranno dieci anni prima che si arrivi a questa somma. E qui arriva una domanda cruciale. Cosa fare in caso una banca avesse bisogno di soldi, irreperibili sul mercato dei capitali? Utilizzare questo fondo sarebbe poco utile, in caso di esigenze significative. Certo, potrebbe chiedere una linea di credito allo European stability mechanism (Esm), il fondo salva-Stati permanente, ma sarebbe un meccanismo tanto complicato quanto condizionante. Lo si è visto con le banche spagnole. Rimangono due soluzioni, più o meno simili a un suicidio. La prima è incrementare al massimo, in altre parole versare tutta la quota prima dei termini, la capacità nazionale all’interno del fondo di risoluzione, salvo poi erogare il finanziamento alla banca (o alle banche) in difficoltà. Un aiuto di Stato via l’eurozona, che da un lato sarebbe visto come fumo negli occhi dalla Germania, dall’altro alimenterebbe azzardo morale all’interno del sistema bancario in crisi e provocherebbe squilibri nelle finanze pubbliche del Paese in questione. La seconda via è quella di chiedere un sostegno agli altri Paesi. E dato che la solidarietà non è proprio il sentimento più diffuso nell’area euro, è facile immaginare che ogni intervento di questo genere sia destinato a essere subordinato a una forte condizionalità.
Il terzo punto riguarda le forme di risoluzione. Il mantra a Bruxelles e dintorni, quando si parla di banche in difficoltà, è solo uno: «I salvataggi bancari non devono gravare sulle spalle dei contribuenti». Vero, ed ecco perché è nato il meccanismo del bail-in, cioè il salvataggio interno, tramite azionisti, obbligazioni ed eventualmente depositanti. Ma si sa che ogni caso di crisi bancaria è diverso dagli altri. Vuoi per azionariato, governance, rilevanza sistemica o interdipendenza con le altre banche. E chi sarà a decidere quale strumento usare dei quattro possibili (M&A, banca-ponte, bad bank, bail-in)? Fra authority nazionali e comunitarie, quasi 130 persone. Troppe. E con troppi interessi particolari, e nazionali, da salvaguardare.
Infine,il quarto punto, quello che preoccupa più i cittadini che gli investitori, è quello relativo allo schema di protezione dei depositi, utile da unire al bail-ini. La presidenza di turno dell’Unione europea, quella della Lituania, ha spiegato che è stato trovato un «accordo politico». Vale a dire, nel gergo bruxellese, che mancano ancora tantissimi dettagli. Ma, come ha ribadito il commissario Ue al Single Market, Michel Barnier, su un punto c’è chiarezza: i depositi sotto i 100.000 euro sono tutelati. Su tutti gli altri, è stato trovato un accordo per mettere a disposizione lo 0,8% del valore dei depositi non assicurati presenti in Europa. In caso di bail-in sui depositi oltre i 100.000 euro, si potrà quindi attingere da questo fondo. I dubbi non sono pochi. Ci sarà una franchigia? Chi deciderà se i depositanti di quella o quell’altra banca saranno eligibili a richiedere l’accesso al fondo di tutela? In che modo avverranno i versamenti a chi ha subito un bail-in? Domande che non hanno risposte. E chissà quando le avranno.
Sullo sfondo, ci sono due aspetti che possono irritare - e non poco - gli investitori internazionali. In primis, il meccanismo farraginoso e incerto nel prendere una posizione chiara verso un tema, quello bancario, che sta particolarmente a cuore ai mercati. Se non si investe nelle banche della zona euro è perché mancano regole chiare in caso di difficoltà, né c’è la certezza di cosa ci sia nei bilanci. Quanti sono i titoli di Stato, per esempio? O quanto sono le attività rischiose? E i Non-performing loan? Ancora una volta Bruxelles sta dando segnali discordanti ai mercati finanziari. La tempistica elevata, la machiavellica burocrazia comunitaria, i troppi interessi nazionali in gioco: niente di tutto questo serviva.
Secondo, non è ancora finita la partita su come conteggiare, nella prossima Aqr, i titoli di Stato contenuti nella pancia delle banche dell’eurozona. Saranno considerati secondo un concetto di rischio operativo o secondo l’idea che siano dipendenti dal rischio default del Paese? Ancora non si sa. Ma le indicazioni che arrivano da Francoforte vedono un allineamento alle posizioni di Berlino, che voglio dare segnali chiari ai mercati, anche a costo della stabilità finanziaria nel breve termine. Un atteggiamento pragmatico, e capace di penalizzare le banche italiane, che sono cariche di bond governativi italiani. Poco male, dicono nei corridoi della Bce. Se l’obiettivo è quello di avere un sistema bancario più sicuro nel lungo periodo, bisogna sopportare qualche tumulto nel breve.
Alcune banche, vedi UniCredit e ING, si sono già attrezzate. Nei prossimi mesi scenderanno sul mercato per collocare Cocos (Contingent convertible capital bond), particolari bond che promettono una cedola molto elevata, ma che possono essere oggetto di bail-in se il capitale Core Tier 1 scende sotto una data soglia. Da obbligazionisti ad azionisti, quindi. E questo è un modo, molto più usato all’estero che in Italia, per far fronte alle lacune dell’Ue. Ma non tutti gli istituti bancari potranno usare i Cocos, o altri bond hybrid, per proteggersi in vista dell’Aqr e dei possibili tumulti. E con uno schema di risoluzione come quello odierno, sarà ancora più difficile trovare protezione in fretta. Se l’obiettivo dell’Ue era quello di creare una sistema bancario più sicuro di quello visto finora, per ora è fallito.