Enrico Mannucci, Sette 20/12/2013, 20 dicembre 2013
COME SI FA A FARE L’ESPRESSO PIU’ BUONO DEL MONDO
Ciliegie rossastre. Dal sapore che ricorda vagamente quello dei piselli. Così si presentano, alla vista e al gusto, i chicchi di caffè al naturale, crudi, cioè prima di essere tostati.
Ora, può parere misterioso che qualcuno si appassioni a un oggetto del genere. È quello che invece successe a Francesco Illy, un giovane di Timisoara (oggi città romena, all’epoca ungherese), trasferitosi a Vienna alla vigilia della Prima guerra mondiale. Richiamato al fronte, combatté a Verdun e, alla conclusione del conflitto con la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, si stabilì a Trieste, scoprendo lì – tramandano le memorie familiari – i tre amori della sua vita: la città, la moglie Vittoria e il caffè, che pare non reputasse meno importante.
L’“oro nero”. Del resto, a studiare l’argomento, le ragioni di tanta dedizione non mancano. Sul versante più favolistico e letterario, innanzi tutto, con innumerevoli storie e leggende, a partire da quella che data l’uso del caffè già nel V secolo, nel regno della regina di Saba. Testimonianze più attendibili risalgono al XV secolo. Nel 1671, in De saluberrima potione, il frate Antonio Fausto Naironi riferisce l’avventura di un pastore etiope, Kaldi, che perde il gregge di capre. Le ritrova, il mattino dopo, vispissime, attorno a un arbusto verde e lucente. Assaggia i frutti e ne verifica anche lui le eccezionali proprietà stimolanti. Con un lungo viaggio, porta i frutti a un monastero yemenita. Ma un santone inorridisce: «Opera del diavolo!». E butta le bacche nel fuoco. L’odore, però, è gustoso. Qualcuno raccoglie i chicchi, li sbriciola, li immerge nell’acqua calda: la prima tazza di caffè sarebbe nata così. In altre leggende si tira in ballo Maometto. Di quasi sicuro c’è solo l’origine geografica della pianta: l’Etiopia, per la precisione la regione abissina di Kaffa. È da lì – e dall’uso che ne fanno i nomadi di quegli altipiani – che il caffè si diffonde, prima nello Yemen, poi in Arabia e in Egitto e, via via, nell’intera area mediterranea.
Rispetto alla bacca e alla bevanda che se ne ricava, però, Francesco era più interessato a un approccio diverso. Si era prefisso un obiettivo: «Fare il caffè più buono del mondo». Il “nero”, anzi, come a Trieste viene chiamato l’espresso. Per riuscirci bisognava affrontare il suo “terzo amore” con piglio tecnologico e scientifico. E anche rapido. La storia aziendale di Illy corre veloce. Prima lavora in una torrefazione, la Emax, poi, nel 1933, fonda la illycaffè (da allora con la i minuscola), in società con Roberto Hausbrandt, un altro triestino già attivo nel settore con l’omonima torrefazione creata quarant’anni prima. La nuova ditta è in pieno centro cittadino, in via Giulia. E le invenzioni arrivano presto. Il primo brevetto è del 1934 e riguarda il sistema di confezionamento in barattoli a banda stagnata a “pressurizzazione con gas inerte”. «Una nostra caratteristica esclusiva», racconta oggi Andrea Illy, terza generazione, dal 1994 amministratore delegato: «Completamente diversa dal sottovuoto usato in generale. Con questo sistema togliamo l’aria dai barattoli di latta (che, detto per inciso, producevamo fin da allora noi, in una nostra officina) sostituendola con gas inerte, l’azoto: si evita che il caffè tostato perda rapidissimamente gli aromi come succede a contatto con l’aria». L’anno successivo, nuovo brevetto, questo specificamente mirato all’espresso che, diceva Francesco Illy, «sta al caffè “normale” come il profumo all’acqua di colonia». Perché, fra i molti modi di ottenere la bevanda, è il sistema che evita di portare l’acqua a ebollizione, in modo da emulsionare solo gli oli “basso-bollenti” – dall’aroma gradevole – mentre gli “alto-bollenti” sarebbero più “legnosi”. Per garantirsi il risultato, Illy crea l’Illetta: progenitrice delle macchine da caffè oggi in ogni bar, separa la fonte di pressione dell’acqua da quella del vapore, in modo da non “bruciare” la polvere.
Un approccio scientifico. Il capostipite della dinastia non è, comunque, un ricercatore fanatico rinchiuso nel suo laboratorio. In una città naturalmente cosmopolita come Trieste, la famiglia è cosmopolita al quadrato. In casa si parla tedesco, Vittoria è nata a Johannesburg, Ernesto – con Hedda, uno dei due figli – comincia presto a viaggiare per il mondo, a incontrare i “crudisti” – i commercianti di caffè crudo – da cui la ditta si rifornisce. A partire dal 1947, è lui alla guida: da chimico, perfeziona l’approccio scientifico al servizio della qualità: farà effetto, negli Anni Ottanta, la notizia di lui che passeggia per i viali di Harvard, discutendo con esimi scienziati come Ilya Prigogine, in piena estate, mentre i colleghi imprenditori si godono la Costa Smeralda.
L’espansione in 140 Paesi. Tornando indietro nel tempo, quelli del dopoguerra sono anni convulsi e tormentati per Trieste, contesa fra Italia e neonata Jugoslavia e dichiarata “territorio libero” sotto il governo alleato fino al 1954. La città è teatro di scontri violenti fra filo-italiani e filo-titini ma la situazione anomala ha anche degli aspetti positivi dal punto di vista commerciale e prospera: il credito doganale sulle accise d’importazione, per esempio, è agevolato. Hausbrandt e Illy si spartiscono le zone d’interesse. Al secondo tocca il “fuori confine”, e andar via dalla città, ragiona oggi Andrea, fu un buon tirocinio: «Ci siamo fatti le ossa nell’Italia meridionale».
Così, illy cresce. Abbandona qualche settore (dopo la guerra non verranno più prodotte macchine per l’espresso: si lascia il campo a ditte specializzate come Gaggia, Cimbali e Faema), ma tiene a battesimo un nuovo stabilimento (in via Flavia, inaugurato nel 1965) e, soprattutto, avvia l’espansione internazionale con una prima società all’estero, la illy Nederland, aperta nel 1961. Intanto, sotto la guida di Ernesto, proseguono ricerca e innovazione: è del 1974 il brevetto della cialda di caffè “monoporzionata” in carta. È il sistema che aiuta lo sbarco negli Usa, dove illy – “Missionari dell’espresso”, si autobattezzano in ditta – arriva nel 1979: «E non fu semplice superare i problemi per importare là le macchine per le cialde», ricorda Andrea. Accanto ai progressi tecnologici, però, diventa importante anche un altro fronte: la collaborazione con artisti e designer per la realizzazione dei prodotti e delle campagne pubblicitarie. La vocazione è presente fin dagli inizi: nel 1934, il fondatore, Francesco, aveva affidato a un illustratore polacco, Xanti Schawinski, la creazione di un manifesto per promuovere il marchio. Ma è negli Anni Ottanta, con l’arrivo della terza generazione – i fratelli Riccardo e Francesco – che la vena viene sviluppata in pieno: è il lancio della illycollection, le collezioni che a oggi sono state decorate da più di ottanta artisti in cento differenti versioni (e uno di loro, James Rosenquist, disegna nel 1994 anche il nuovo logo della società).
Una vivacità in ogni campo che aiuta anche a superare il momento difficile degli Anni 90, quando crollano i prezzi e crolla la qualità del caffè reperibile sui mercati. La scelta di illy è drastica: vengono tagliati fuori i crudisti per approvvigionarsi direttamente dai produttori, da cui, mediamente, viene ricavato il “cuore” di quel che dà il cultivar (il termine tecnico per indicare la zona dove cresce la pianta).
Siamo all’oggi, con la illy presente in più di 140 Paesi, impegnatissima nello sviluppo dell’Università del caffè, creata nel 1999 da Andrea e attiva con venti sedi nel mondo. E, soprattutto, proiettata verso il futuro come dimostra l’impegno per la prossima Expo di Milano, dove illy torna alle origini del caffè con «l’ideazione e la gestione di contenuti, esposizioni ed eventi dedicati al caffè, nell’area comune del cluster tematico», conclude Andrea Illy.
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