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 2013  dicembre 20 Venerdì calendario

IL SICILIANO CHE AMÒ MAJAKOVSKIJ E MORÌ PER

PRAGA –

Un «in cima a un perduto scaffale della Biblioteca del Cosmo», questo era l’umile posto che Angelo Maria Ripellino aveva previsto per le sue opere. Ma adesso, a novant’anni dalla nascita, sembra in pericolo anche quella postazione precaria. Certo dal punto di vista della società letteraria italiana ha molte pecche: è rigoroso e geniale, appassionato e onesto. E, come se non bastasse, era troppe cose: un poeta e uno studioso, uno scrittore e un traduttore, un giornalista e un accademico. Ma, anche volendo, Ripellino non riusciva a rinunciare a nulla, come non riusciva a consegnarsi a nessun gruppo. Sapeva però che la libertà si paga. «Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo. / Devi associarti a una consorteria / di violinisti guerci, di furbi larifari, / di nani del Veronese, di aiuole militari, / di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria. / E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo, / le gighe del marciume inorpellato, / inchinarti dinanzi ai feticci della camorra, / come Abramo dinanzi al volere del cielo. / Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi, / guai a chi resta solo come un re disperato / fra neri ceffi di lupi digrignanti». Sapeva che gli uni gli rimproveravano di essere uno studioso e gli altri di essere un poeta. «Per anni e anni ho scritto e stracciato poesie vergognandomi di scriverne. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegavano sempre a una precisa dimensione, in un ranch, da cui mi era rigorosamente vietato di evadere».
Apparentemente Angelo Maria Ripellino aveva ben poco dell’intellettuale italiano. «Sebbene io sia imbrattato delle fuliggini del Mitteleuropa, nutrito di mille umori stranieri e come arrivato sin qui con un carrozzone dipinto di calderai, tuttavia nella barocca e ferale Sicilia affondano le mie radici». Quel siciliano elegante, con gli occhi allungati, i capelli scuri, gli zigomi alti e i fitti baffi sembrava, secondo Pasternak, un georgiano. Aveva incontrato a Praga l’amore della sua vita, l’alta e bionda Ela, appassionata come lui di letteratura e di traduzioni. Ma non dimenticava la patria. Infatti la poesia di quel viaggiatore «spaurito come Kafka, allegro come un giullare» nasceva da un sogno: «Ho sempre vagheggiato di trovare un punto d’incontro fra la lezione dei moderni lirici slavi, tedeschi, francesi, di cui mi sono imbevuto, e i congegni, le meraviglie del nostro Barocco. Per me una lunga fune si tende dalla Martorana alla cupola del San Nicola di Praga».

Prosa vertiginosa. Ripellino non cercava di eludere le sue contraddizioni, consegnandole all’ideologia. Preferiva sfruttarle in tutta la loro ricchezza. Era questa la scelta paradossale che conferiva al suo stile quella lussureggiante andatura così distante dal grigiore accademico dei colleghi. Ben pochi sapevano, come quel versatile funambolo, «trattar le parole come tubetti di colore schiacciati e di attirarle in viluppi fonetici» (La Fortezza d’Alvernia).
Con la sua prosa vertiginosa, strettamente imparentata con la poesia, aveva strappato Majakovskij alle mistificazioni dell’accademia sovietica. Nell’epoca più buia del marxismo sovietico aveva ricostruito – da
Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia all’Arte della fuga – la sfuggente identità del futurismo russo, sorprendendola nei gesti, nei fatti e nelle strategiche eccentricità dell’abbigliamento.
Giacinto Spagnoletti lo ricorda nel 1965, «un ciuffo dei neri capelli quasi incollato alla fronte, il viso scavato da un male cattivo, gli occhi vividi di entusiasmo e tuttavia increduli, sembrava uscito da una delle illustrazioni del suo libro. Ricordava quei missionari della scena e della poesia russa, ormai leggendari, ai quali il rimbombo della vista esterna doveva giungere per vie segrete e inafferrabili. Aveva lavorato cinque anni alla sua opera, Il trucco e l’anima, senza risparmiare le forze: era molto ammalato. Partì il giorno dopo per un sanatorio nei dintorni di Praga».

Pensieri per la moglie. Quando, nel 1968, i carri armati sovietici avevano invaso la Cecoslovacchia, aveva dovuto fuggire precipitosamente con la sua famiglia. «Proprio in quella notte, ricorda la figlia Milena, è cominciato il declino di mio padre. La sua salute, già vacillante, è stata come spezzata da quell’invasione, vissuta come una violazione non solo di una terra, di un popolo, ma della sua anima, del suo corpo».
Ma il capolavoro della sua prosa, miracoloso risultato del suo «bowling di parole» era Praga magica, un libro denso, oscuro e luminoso, in cui riaffioravano artisti e storie affossati dal regime. «Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hasek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria».Avrebbe voluto che gli amici praghesi leggessero il suo omaggio alla loro città, ma il libro era stato vietato e circolava solo in fotocopia. Malgrado lo scoramento, coltivava un’ultima speranza. «Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un baratro i persecutori, i monatti. Ed io forse vi ritornerò. Certo che vi ritornerò. Andrò a Praga, al cabaret Viola, a recitare i miei versi. Vi porterò i miei nipoti, i miei figli, le donne che ho amato, i miei amici, i miei genitori risorti, tutti i miei morti. Praga non ci daremo per vinti».
Mentre la tisi, che aveva in comune con l’amato Kafka, lo stava consegnando alla morte continuava a pensare alla moglie Ela. «Dove trovarti, quando avrò desiderio di te, dei tuoi occhi smeraldi, / quando avrò bisogno delle tue parole? / Dio esige l’impossibile, / Dio ci obbliga a morire. / E che sarà di tutto questo garbuglio di affetto, /di questo furore?».