Piero Melati, Il Venerdì 20/12/2013, 20 dicembre 2013
CHI VUOL FERMARE LA PAPASTROJKA
Roma. Con il bicchierino del caffè in mano, appena preso alla macchinetta automatica, chiama querida una delle suore dell’ordine di San Vincenzo assegnate alla Domus Santa Marta. L’ospite dell’appartamento 201 del secondo piano esorcizza così, con un sorriso, il clima in stile Borgia che accompagna la vigilia del suo primo Natale da pontefice. Aria di complotti, stiletti acuminati, quasi fossimo in un romanzaccio alla Dan Brown. Basti osservare la pattuglia degli occupanti delle 126 stanze del convitto. C’è chi anticipa l’abituale colazione dopo la Messa del mattino, pur di incontrarlo. A conferma della sua enorme popolarità. Ma c’è anche chi ritarda, per evitare di vederlo. È capitato infatti che quest’uomo schivo, austero al punto da rinunciare all’appartamento papale, rimproveri un alto prelato. Colpevole di attendere l’auto blu, per recarsi a San Pietro. «Ma perché non vai a piedi? La Santa sede è talmente vicina da qui...» ha detto, provocando indignazione e sconcerto. Eppure Bergoglio non rinuncia al suo convitto. «Ha scelto di abitare nella Domus Santa Marta perché non vuole vivere isolato. Desidera mantenersi informato. Qui incontra il mondo. Non ha idee determinate in partenza.
È consapevole di avere avviato un processo. Poi si consulta, prega e va avanti. Sa che deve mettersi in cammino. L’obbiettivo finale non è pianificato. Lo conosce solo il Signore» spiega padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, gesuita come il Papa.
A nove mesi dall’insediamento, Bergoglio non molla. Come avevano sperato in tanti. Anzi, rilancia. Ma chi sono, oggi, i suoi nemici? Spiega padre Spadaro: «Questo Papa non è rassicurante. Ha aperto una finestra, ha lanciato una sfida. Non offre categorie definite: continuità, discontinuità, conservazione, progressismo. La sua stella è Maria che, dinanzi all’annuncio dell’angelo, resta desorientada, desconcertada, sorprendida, ma non si difende dalla sorpresa».
Yo desbordo de alegrìa, sia il motto di un cattolico. Francesco non commercia valori. Ma neppure li eclissa. Ha appena abolito la flotta di auto blu dello Ior. Al suo posto, ha voluto un equipaggio di modeste berline da travet. A bordo di una delle quali, un alto dirigente dell’Istituto si è avviato nei giorni scorsi verso la residenza del Papa, per dire ai collaboratori: «Avvertite sua Santità che quest’anno i fondi a lui destinati verranno quasi dimezzati». È consuetudine dello Ior devolvere ogni anno 50 milioni ai Pontefici, per spese istituzionali. Nel 2014, invece, saranno solo 30. I conti languono. Tutti, allo Ior, si aspettavano una lavata di capo per il «taglio». L’erede di Pietro, invece, non ha fatto una piega. Si è solo premurato di allertare l’arcivescovo Konrad Krajewski, da agosto elemosiniere del Pontefice. Suo compito? Planare negli angoli più bui del Pianeta, per distribuire gli oboli del Papa. Compresi i soldi dello Ior. Tutto per i poveri. Un vento salubre investirebbe anche illustri trombati. Tarcisio Bertone, 79 anni, per un settennato il potente segretario di Stato, Camerlengo dal 2007, era figura estranea al corpo diplomatico della Santa sede, dal quale provenivano i suoi predecessori. Ora Bergoglio è tornato a quella tradizione, sostituendolo con il venezuelano Pietro Parolin. Ma, nonostante il siluramento, Bertone sembra ringiovanito. Pur restando presidente della commissione di vigilanza dello Ior, l’ex segretario di Stato ha dismesso il consueto abito vescovile con pellegrina, in favore di un più umile look da salesiano. «Sembra essersi liberato da un peso» dice chi lo conosce.
Affrontando il caso Bertone, il Pontefice ha toccato con mano il groviglio che attanagliava Curia e segreteria di Stato. Bertone aveva sostituito nella carica il potente Angelo Sodano, 86 anni, decano del collegio romano. Una successione che il predecessore di Bergoglio, Benedetto XVI, aveva imposto, nonostante rompesse la tradizione che voleva un diplomatico capo della Curia. Ratzinger non aveva perdonato a Sodano (che pure era stato suo grande elettore nel Conclave) l’abitudine di fargli fare anticamera per essere ricevuto da Giovanni Paolo II. E Sodano, per ripicca, si era rifiutato di lasciare a Bertone i suoi appartamenti. Non solo. Ratzinger era rimasto impressionato dall’indifferenza con la quale i vertici della Curia di allora avevano accompagnato l’agonia di Wojtyla, avallandone l’esposizione mediatica in condizioni di estrema sofferenza. Proclamato Papa, Benedetto XVI aveva assicurato che mai avrebbe accettato una via crucis simile a quella di Wojtyla, annunciando subito l’eventualità delle avvenute dimissioni.
Nel frattempo il bubbone dello Ior era peggiorato fino alla necrosi. Nel febbraio scorso Benedetto XVI, a pochi giorni dalla fine del mandato, inviava a sorpresa in Colombia monsignor Ettore Balestrero. Era il delegato della segreteria di Stato di Bertone per i rapporti con lo Ior. Considerato vicino a Comunione e liberazione, era legato all’economista di area Opus Dei Ettore Gotti Tedeschi, dal 2009 al 2012 presidente dello Ior. Il trasferimento di Balestrero era stato preceduto dalla «defenestrazione» dello stesso Gotti Tedeschi dal vertice della banca vaticana, avvenuta il 24 maggio 2012 da parte del Consiglio di sovrintendenza.
Carlotta Zavattiero, autrice dell’inchiesta Le lobby del Vaticano (Chiarelettere, 2013) sostiene che la rimozione di Gotti Tedeschi porta la firma di Carl Albert Anderson, membro del Consiglio dello Ior e leader dei Cavalieri di Colombo, la più grande organizzazione americana di mutuo soccorso, con una dotazione annuale di 20 milioni di dollari. Il 28 giugno scorso, infine, viene arrestato monsignor Nunzio Scarano, accusato di corruzione e riciclaggio, scandalo che porta alle dimissioni di direttore e vice dello Ior, Paolo Cipriani e Massimo Tulli, vicini a Bertone. In mezzo a questi episodi, veleni, Vaticanleaks, documenti trafugati dalla dimora di Benedetto, l’arresto del segretario, le ombre corrotte di una lobby gay. Bergoglio ribalta la situazione. Il Papa incarica il suo segretario, il maltese Alfred Xuereb, di vigilare sul lavoro di due commissioni chiamate a riformare lo Ior, in raccordo con il nuovo segretario di Stato Parolin. Una spinta decisiva al cambiamento, ancora una volta, è arrivata dall’estero. Il Financial Times, ha rivelato che Deutsche Bank, JPMorgan e Unicredit hanno esercitato pressioni sul Pontefice per chiarire la storia dei due miliardi annui (sui cinque di asset dell’istituto) che provengono loro dallo Ior e dei quali il Vaticano non spiega l’esatta origine. Le tre banche internazionali non vogliono rischiare pesanti sanzioni antiriciclaggio per quella liquidità di dubbia natura.
Il Pontefice sogna una «banca di servizio », epurata da una pecunia che per lui olet eccome, aperta invece ai risparmi dei migranti, delle congregazioni e delle missioni. L’arcivescovo di Tegucigalpa, Oscar Andrés Rodriguez Maradiaga, uno degli uomini più vicini al Papa, ha parlato spesso di una riforma dell’istituto in senso «etico». Facile prefigurare forti resistenze. Sottotraccia si muovono potenti lobby interessate a mantenere l’opacità dei conti. E un’ala dell’Opus Dei tagliata fuori dalla riforma, legata ai vecchi assetti rappresentati da Gotti Tedeschi, resiste e sparge veleni, sebbene la maggioranza dei «numerari» approvi invece il cambiamento e collabori.
Ma c’è chi giura, dentro il Vaticano, che la trappola peggiore per il Papa non sia lo Ior. Ci sarebbe di peggio, pronto a scattare, a proposito della dirompente novità del Consiglio degli otto, coordinato dallo stesso arcivescovo Maradiaga, e chiamato a guidare la trasformazione radicale della Curia.
Il diavolo si annida nei dettagli. Per capire le storiche resistenze degli uffici vaticani, pronte a riesplodere, basti ricordare Paolo VI. Montini era un profondo conoscit re della Curia e, come tale, ritenne obbligatorio abolire gli scatti di carriera, imporre la soglia dei 75 anni per le alte cariche, introdurre i badge all’ingresso. Ma guai a toccare i privilegi. Ancora oggi, le misure adottate da Paolo VI provocano più mal di pancia di uno scisma. Nata come struttura di ascolto e di governo della Chiesa planetaria, prima di Bergoglio la Curia era in mano alla segreteria di Stato, divenuta nel tempo un potentissimo governo ombra con le sue diramazioni.
Troppe anche le congregazioni, sulla carta dicasteri per governare collegialmente la Chiesa, in realtà luoghi di affari e privilegi, gonfiate ulteriormente negli ultimi anni da un numero esorbitante di sottocommissioni. Il Papa vuole ridurle e farle tornare alle origini: un orecchio del Vaticano sulle periferie del mondo. Centri privi di potere ma con grandi capacità di coordinamento e sintesi. In tanti sono preoccupati, e bussano alle porte dei prelati detronizzati (da Sodano a Balestrero, da Bertone a Fisichella) per denunciare il disagio e chiamarli alla mobilitazione. Si arriva al calor bianco, infine, quando a proposito di Curia si parla di ribaltare il Pontificio consiglio per i laici. L’ufficio è stato il cuore dei grandi eventi della Chiesa. Ai suoi sportelli sono legate tante scalate vaticane da parte di consistenti ali dei cosiddetti «nuovi movimenti». Dai neocatecumenali ai focolarini, da Comunione e liberazione al Legionari di Cristo, da Sant’Egidio alla prelatura dell’Opus Dei, nessuno dei vertici di queste organizzazioni è rimasto indenne dai protocolli abituali del Pontificio consiglio per i laici. Ma oggi l’intera galassia si sta riposizionando. All’interno della Chiesa, i tradizionalisti preconciliari sarebbero «una setta piccola e risicata». Le loro posizioni avrebbero, invece, ancora presa tra gli atei devoti, agitati da blog veterotestamentari dai toni incendiari, a proposito di ortodossie dottrinali e liturgiche. «Le élite spirituali si guardano l’ombelico. Così si cade nel fanatismo scambiato per fervore» li ha bacchettati Bergoglio. Ma loro continuano a non sopportare le foto del Papa su Facebook, mentre si soffia il naso.
Non solo integralismi. Anche nella Comunità di Sant’Egidio ferve il dibattito sull’esperienza da ministro nel governo Monti del fondatore, Ugo Ricciardi. Ci si divide tra la teoria di «sporcarsi le mani in politica» e l’ansia di chi vorrebbe tornare ai successi diplomatici e internazionali della Comunità.
Un travaglio particolare marcherebbe Comunione e liberazione. Il 4 dicembre scorso, il Pontefice non ha ricevuto in udienza l’arcivescovo di Milano, Ettore Scola, suo competitor nell’ultimo Concilio. Al margine della motivazione ufficiale (lieve malessere del Papa) sono fioccati i retroscena, compreso quello che vorrebbe il Pontefice non gradire la presenza dei vertici dell’Expo di Milano, accodatisi dietro il pastore. I ciellini sarebbero «lealisti» (come l’Opus Dei, che verso il Papa lo è addirittura per statuto), e in tanti vorrebbero isolare «affaristi di terza generazione » e «anarcocapitalisti». Ma c’è chi non ama l’audacia di Bergoglio, che tanto rievoca la prassi del cardinale Carlo Maria Martini. Ma il problema non sta a Milano. Africa, Asia, Usa, Oceania, Brasile, Filippine, Congo, India, conferenze dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi. Sono le citazioni global contenute nella Evangelii gaudium, primo ed esplosivo documento del Pontefice. Il Papa ha incontrato presuli e politici del mondo, convinto che la Chiesa debba resuscitare la propria ramificazione planetaria. Una Chiesa in missione per conto di Dio, ma con i piedi piantati nel reale. Che non tema neppure l’eventualità del ventiduesimo Concilio Vaticano della storia. Riflette il direttore di Civiltà cattollica: «Si chiedono al Papa, in continuazione, azioni rapide e improvvise. Si vorrebbe un Pontefice líder maximo, che compia gesti autoritari e impositivi. Questo accomuna conservatori e progressisti. Tutto e subito, senza avere la pazienza di un processo. Si deve capire che, per il Papa, i processi valgono più degli spazi da conquistare. Si dissenta anche da lui. Questo non comprometterà l’unità della Chiesa. Ma intanto ci si rimetta in marcia».