Mario Comana, MilanoFinanza 19/12/2013, 19 dicembre 2013
L’ANATOCISMO? È UN FALSO PROBLEMA
Le indicazioni per la nuova disciplina contro l’anatocismo, contenute nella bozza della legge di Stabilità, peccano ancora una volta di scarsa razionalità. Denotano l’ignoranza di basilari concetti di matematica finanziaria ed economia aziendale da parte di chi scrive le norme, inconsapevole dei danni che tali errori fanno al sistema. La soluzione precedentemente adottata dal Cicr, cioè la simmetria della periodicità nella capitalizzazione degli interessi, era una pezza ma almeno funzionava. Non risolveva affatto il problema perché consentiva la maturazione di interessi sugli interessi, però aveva fatto chiarezza sul comportamento da seguire nella contrattualizzazione dei rapporti bancari. Il fatto è che l’anatocismo è un falso problema; il concetto giuridico sottostante non ha fondamento finanziario. La matematica finanziaria non distingue fra interessi puri e interessi anatocistici ma parla di tassi di capitalizzazione semplici e composti, tutti leciti. Essa non conosce la differenza, tutta giuridica, fra «sorte capitale» e «sorte interessi», ma calcola il valore del capitale nel tempo: un euro oggi è diverso da un euro fra un anno in ragione del tasso di interesse convenuto. Punto. L’art. 1.283 del Codice civile vieta la maturazione di interessi sugli interessi scaduti, fino alla domanda giudiziale. Il che è illogico e iniquo: perché l’eventuale pagamento ritardato degli interessi dovrebbe essere senza conseguenze?
Ma è sul conto corrente che l’impostazione diventa aberrante e manifesta l’ignoranza dell’economia aziendale oltre che della matematica finanziaria. Secondo l’emendamento, infatti «gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che, nelle successiva operazioni di capitalizzazione, andranno invece calcolati esclusivamente sulla sorte capitale». Così la banca dovrà innanzitutto contabilizzare gli interessi su un conto di evidenza diverso da quello principale. E poi aspetterà di incassare gli interessi al valore nominale, alla futura data di estinzione del rapporto di conto corrente, magari tanti anni dopo? Oppure deve pretendere che il cliente si rechi ogni trimestre allo sportello a versare il controvalore degli interessi? O magari potrà imputare i prossimi accrediti sul conto al pagamento degli interessi? Se questa fosse la soluzione, che apparirebbe formalmente ineccepibile, non avremmo cambiato (quasi) nulla, almeno con i rapporti di normale movimentazione. O ancora, con una finzione, il cliente stacca un assegno sulla banca A per pagare gli interessi alla banca B, e bonifica l’importo degli interessi sulla banca A addebitando la banca B. L’ignoranza dell’economia aziendale impedisce di vedere il punto centrale. Il capitale è un fattore produttivo, il suo costo è un onere come quello di lavoro e materie prime. Come tale genera fabbisogni finanziari, che l’impresa può soddisfare con il debito. Perché ci si può indebitare per gli stipendi e non per gli interessi? Non si vede che così si creerebbe un privilegio dei creditori finanziari sugli altri? La relazione fra interessi capitalizzati, fabbisogno finanziario e flussi di cassa della banca è stata chiarita 50 anni fa da Tancredi Bianchi nel suo Costi, ricavi e prezzi nelle banche di deposito. Sarà bene che qualcuno vada a leggerselo.
Mario Comana*