Massimo Nava, Corriere della Sera 19/12/2013, 19 dicembre 2013
VOGLIA DI DIVORZIARE DA BRUXELLES (CON GLI ASPIRANTI EUROPEI AI CONFINI)
C’è voglia di rivolta in Europa, soprattutto nei Paesi più colpiti dalla crisi. Rivolta, amplificata dai media, che si esprime con blocchi stradali, vandalismi, urla: contro le classi dirigenti, contro la politica, contro il fisco, contro la moneta unica. Rivolta piena di rancore e contraddizioni, che mescola i senza niente e i nuovi poveri, i borghesi decaduti e gli artigiani falliti, i giovani e i pensionati.
Qualche cosa di simile alla «rabbia dei forconi» è già avvenuto nelle scorse settimane in Francia. Grandi manifestazioni contro l’austerità imposta per legge si sono susseguite per mesi in tutta l’Europa del Sud, dalla Grecia alla Spagna. Al disagio, urlato nelle piazze, si sommano le forme di protesta più svariate: presidi notturni e scioperi fiscali, cortei e tam tam sui social network, l’arma in più delle categorie che si sentono danneggiate, sia dalla crisi, sia dalle misure dei governi per arginarla.
Anche chi non protesta si associa al malcontento generalizzato, il cui tratto comune a tutte le forme di rivolta è di nutrire i movimenti populisti e xenofobi che a primavera presenteranno il conto alle elezioni europee e di condizionare, o addirittura snaturare, le politiche europee dei singoli governi, in particolare in materia di immigrazione. Si tendono ad alzare nuove barriere, si preferisce defilarsi di fronte al problema di accogliere profughi siriani, si auspicano politiche restrittive, ma sempre nei confronti degli «altri».
Quando non si traduce in antagonismo e in antipolitica, l’euroscetticismo guadagna terreno nei partiti tradizionali e si consolida in quei Paesi, come la Gran Bretagna o la Francia, mai profondamente innamorati degli ideali europei.
L’Europa non è più un «noi», ma un «loro»: i tecnocrati di Bruxelles, i banchieri di Francoforte, i fannulloni di Strasburgo. L’ideale comunitario è vittima di varie forme di divorzio e disamore. Dei cittadini dalle élite, dell’Europa del Sud dall’Europa del Nord, della Gran Bretagna dall’Europa continentale, dei partner fondamentali della costruzione europea, la Francia e la Germania. Né si può immaginare un ritorno di affetti di fronte a estenuanti summit che spesso si concludono senza esito o con compromessi al ribasso.
Eppure l’Europa, come la bella dea della mitologia greca, continua a sedurre chi dell’Europa non fa parte e chi ritiene di potere ricevere più vantaggi che svantaggi dall’integrazione, quantomeno nei rapporti di forza e di peso specifico in un’economia globalizzata.
C’è voglia di Europa fra i milioni di cittadini che difendono il loro sogno nelle piazze dell’Ucraina. C’è voglia di Europa nei Balcani e in Turchia. C’è voglia di Europa dall’altra parte del Mediterraneo, non solo fra i migranti — il che è comprensibile — ma anche fra quanti sarebbero disposti a comperare il biglietto d’ingresso, essendo in vendita, a quanto pare, la cittadinanza di Malta. C’è ancora voglia di Europa fra i Paesi entrati più tardi: la Polonia, la Slovenia, la Croazia. C’è tanta voglia di Europa fra popoli che aspirano al nostro modello di società, di regole, di garanzie.
Si può sostenere che la domanda di barriere sia un modo di proteggere l’Europa dalle invasioni. Ma l’atteggiamento predominante sembra portare all’implosione, essendo contestati i capisaldi dell’Unione: le istituzioni comunitarie, i parametri finanziari, l’euro.
C’è qualche cosa di psicologico ed emotivo nella contraddizione fra «divorzisti» europei che si sentono traditi e «amanti» non europei che sognano una condizione più felice. C’è un drammatico ritardo di consapevolezza culturale e d’informazione. C’è un uso distorto e devastante di parole e slogan («la moneta unica crimine contro l’umanità») che certo non aiuta la comprensione della posta in gioco.
Gli europei in crisi, pur con molte ragioni per essere rabbiosi e scontenti, hanno perso la memoria di un faticoso percorso di conquiste e garanzie sociali progressive, cominciato sulle macerie della guerra. E le generazioni successive danno per scontato ciò che scontato non è, come se benessere e crescita si potessero ottenere per decreto.
Fa eccezione la Germania, l’unico Paese che non smette di ricordarsi da dove è partita e di ricordare agli altri che non si costruisce nulla sulle sabbie mobili del debito.
Forse per questo è il Paese più europeo, il Paese meno esposto ai rischi del populismo. O, almeno, il più «fedele» alla bella dea.
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