Vittorio Zucconi, la Repubblica 19/12/2013, 19 dicembre 2013
GIOCHI DI GUERRA – RUSSIA GELO OLIMPICO
Indifferente ai miti e alla retorica dello sport olimpico, la politica si è sempre scaldata, e spesso bruciata, le mani al calore della fiamma olimpica. La scelta giustamente provocatoria fatta da Barack Obama di affidare la bandiera americana per le Olimpiadi di Sochi a due ex atlete dichiaratamente lesbiche, Billy Jean King la tennista e l’hockeysta Caitlin Cahow per umiliare Putin, è soltanto l’ennesima dimostrazione di quanto irresistibile sia quel palcoscenico a cinque cerchi per chi vuole vincere medaglie nel mondiale della politica.
Senza arrivare all’orrore e al sangue di Monaco 1972, teatro del massacro di undici partecipanti israeliani per mano dei palestinesi di Settembre Nero che volevano urlare al mondo la tragedia del loro popolo, rari sono ormai i Giochi Olimpici che nell’età moderna non abbiano visto, dietro le bandiere, i podi, le medagliette, le festose sfilate di apertura e chiusura, il pungiglione del grande gioco della politica.
Il Presidente Obama, accusato di avere subito senza volere o poter rispondere, alla criminalizzazione dell’omosessualità voluta da Putin in perfetto stile sovietico (in URSS l’omosessualità era un reato) ha scelto Sochi e le Olimpiadi Invernali per questo gesto dimostrativo. La comunità americana LGBT, lesbiche, gay, bisex e transgender, che tanto lo ha sostenuto in voti e in finanziamenti elettorali, lo richiedeva. E’ inevitabile che il paradosso di una manifestazione che pretende di esaltare insieme la “fraternità” dei popoli in competizione leale mentre eccita il nazionalismo nel cerimoniale della bandiere e nell’accanita contabilità dei medaglieri, si strappi quando abbastanza tensione esiste fra Paesi partecipanti. Il fiume carsico delle rivalità, delle antipatie, degli odi che scorre sotto la crosticina colorata dello spirito olimpico inesorabilmente affiora.
Possono essere rancori interni alle singole delegazioni, che esplodono nei pugni alzati al cielo da Tommy Smith e John Carlos contro il razzismo sul podio dei 200 metri a Città del Messico 1968, l’anno dell’assassinio di Martin Luther King, riassunti con brutale sincerità da Carlos quando disse: «Se vinco sono un americano, se perdo sono un negro». Al contrario, l’invasione di campo della politica può essere un segnale positivo, come fu la riammissione del Sud Africa nella Barcellona 1992, dopo 31 anni di esclusione per punizione contro l’Apartheid. Ma sempre di continuazione della politica con altri mezzi, in questo caso sportivi, si tratta.
Nessuno è innocente o completamente vergine quando si tratta di mandare nello stesso letto sport e politica. Gli anni ‘30, la decade della notte nazista e fascista in Europa, furono squarciati dal lampo di Jesse Owens nella Berlino 1936, con le sue quattro medaglie buttate in faccia a Hitler e agli organizzatori che volevano in quei Giochi la canonizzazione della superiorità ariana, anche se il boss del comitato Usa, Avery Brundage, si era segretamente arreso bloccando la partecipazione di due velocisti ebrei, per compiacere i Nazisti. I successi degli atleti, o del calcio italiano, erano invariabilmente salutati dai giornali del tempo come successi del Fascismo e tributi al Duce. Esattamente come una generazione dopo, i trionfi prodigiosi degli olimpionici della piccola DDR, la Germania del’Est, erano venduti come prove inconfutabili della superiorità del Socialismo Reale. E non della spietatezza biochimica degli stregoni del doping.
La provocazione di Obama, con la scelta della King - che costringerà Putin l’omofobo militante a ossequiare una donna che in Russia sarebbe una criminale si aggiunge al rifiuto di partecipare alle cerimonie e di inviare pezzi grossi di un’Amministrazione americana che sarà rappresentata da un’ex ministra dimissionaria, Janet Napolitano, doppio sberleffo all’ex amico Vladimir. Ma nè la presenza di quelle due “criminali”, nè l’assenza di personalità autorevoli, potrà replicare, nel campo trincerato di Sochi nel Caucauso, la lugubre crudeltà del boicottaggio di Mosca 1980, deciso da un Carter impotente, ma indispettito, dall’invasione russa dell’Afghanistan, lanciata appena 8 mesi prima dell’accensione del braciere olimpico.
Noi giornalisti, come i partecipanti, vagavamo nel deserto di una capitale sovietica spopolata dalla deportazione di ogni possibile dissidente a cominciare da Sakharov, rarefatta di turisti, trincerata in torvi stadi senza le bandiere delle nazioni europee come l’Italia che avevano accettato di partecipare soltanto con i colori generici del CIO. E assistemmo a un altro funerale della mistica olimpica, quando già, segretamente, cominciavano a tornare le bare dei soldati russi uccisi in Afghanistan. Con immediata ricaduta, quattro anno dopo, a Los Angeles, contro-boicottata dall’Urss e dalle sue nazioni clienti.
Guerre incruente, Monaco a parte, combattute con il rifiuto di essere presenti, deciso dalle nazioni africane a Montreal. Condotte con palloni e giavellotti, testimoni da staffetta e dischi da hockey che rapidamente debordano dalle linee di gesso, dai palazzi dello sport, dagli stadi per invadere i risentimenti nazionali. Gli incontri di hockey su prato fra India e Pakistan tengono gli organizzatori con il fiato sospeso e le dita incrociate mentre una generazione di cechi e slovacchi ardevano dal desiderio di sconfiggere l’Armata Rossa con pattini e bastoni che sfidavano spesso nelle finali del torneo. Quando la Cecoslovacchia finalmente sconfisse la Russia a Nagano, nel 1998, vincendo l’oro per 1 a 0, settantamila persone si erano raccolte sulla piazza della città vecchia a Praga per seguire, nel gelo dello 5 del mattino, la finale su maxischermi. Fu quella vittoria, più di ogni altro evento diplomatico o politico, a segnare per cechi e slovacchi la fine dell’egemonia russa sull’Est. «Noi non andavamo in pista per vincere una medaglia — dirà l’eroico portiere Cecoslovacco bombardato da dozzine di dischetti — ma per vincere una guerra».
Billy Jean e Caitlin Cahow non andranno a Sochi per vincere medaglie nè certamente guerre, anche se quella città sta al limite occidentale di un Caucaso che ha visto, negli anni seguiti alla decomposizione dell’Urss, i peggiori massacri che queste terre avessero conosciuto dalle repressioni staliniane. Sull’altro versante dei monti scintillanti e sterilizzati che vedremo ripresi dalle telecamere per le gare, giacciono città dai nomi atrocemente celebri, come Gronzy e Beslan. Andranno perchè anche loro, come tutti gli atleti e i dirigenti e i leader politici che le hanno preceduti dal ritorno delle Olimpiadi immaginate da De Coubertin, sanno che di tutte le promesse e i proclami sotto i cinque cerchi, nessuno è più disatteso e falso dell’articolo 5: «Nessun tipo di propaganda politica, religiosa o razziale è permessa nell’area dei Giochi olimpici». Billy e Caitlin, come Jessie, Tommy, John e gli hockeysti cecoslovacchi andranno proprio per fare la più nobile delle propagande: quella per i diritti non degli atleti, ma degli esseri umani.