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 2013  dicembre 19 Giovedì calendario

IL PETROLIO, LE TRIBÙ E I DUE “SCORPIONI” IL SUD SUDAN RIPIOMBA NELLA GUERRA


La guerra è ricominciata in Sud Sudan. Uno dei due scorpioni, il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo vice Riek Machar, prima o poi doveva pungere la rana del faticoso accordo di pace raggiunto nel 2005. Per trent’anni si sono combattuti, poi alleati, hanno tramato, tradito per prendersi l’eredità del padre della patria John Garang. Nel 2011, assieme, hanno festeggiato l’indipendenza dopo decenni di lotta contro il nord musulmano. La nascita «della 193esima nazione del mondo», la fine, sperata, delle sofferenze.
Tanto petrolio, ma una nazione senza Stato, divisa fra 64 tribù. Due sono quelle che contano, i dinka di Mayardit, i nuer di Machar. Mentre lottavano contro il Nord si sono fatti la guerra a intermittenza, pronti a spartirsi il bottino in caso di vittoria. L’Onu, in cambio della sua garanzia sull’indipendenza, gli ha imposto una camicia di forza: 13mila militari a guardia della capitale, due immensi compound da dove ong e agenzie governative di fatto costruiscono e tengono in piedi le strutture statali, dalla sanità, all’istruzione, all’esercito.
Sembrava una garanzia sufficiente affinché gli scorpioni trattenessero l’istinto e non usassero i pungiglioni per sabotare una libertà conquista al prezzo di due milioni di morti. E invece no. Il 23 luglio scorso, appena festeggiati i due anni dell’indipendenza in una Giuba, la capitale, in pieno boom edilizio, appena firmato l’accordo per poter esportare il petrolio attraverso l’ex nemico mortale, il Sudan del Nord del ricercato (dall’Onu) Omar Bashar, il presidente Mayardit ha rimosso dalla vicepresidenza il rivale di sempre Machar. Che pure aveva promesso di voler aspettare la scadenza del mandato e le nuove elezioni nel 2015 per prendersi, legalmente, la presidenza.
Un’attesa troppo lunga per lui, un rischio troppo alto per Mayardit. Domenica la faida è scoppiata all’interno della Guardia presidenziale, suddivisa fra etnie, fra dinka e nuer, come tutto l’esercito. Mayardit dice di aver «sventato un tentativo di golpe». Machar gli ha risposto ieri che «l’incidente» è scoppiato «per un equivoco», quando gli uomini del presidente si sono avvicinati al suo quartier generale. E qualcuno ha cominciato a sparare.
L’incidente si però trasformato in una battaglia terribile. Almeno 500 morti solo nella capitale, centinaia di feriti. I compound dell’Onu sono stati presi d’assalto da decine di migliaia di civili in fuga dai colpi di mortaio e mitragliatrice che cadevano sulle case. «Ne abbiamo accolto 20mila - conferma il coordinatore dell’Onu nel Paese Toby Lanzer -. La situazione nella capitale si sta normalizzando. Il problema è che non sappiamo che cosa sta succedendo nelle province, soprattutto nello Jonglei», dove l’etnia di Machar è maggioritaria e la guerriglia non ha mai avuto soste.
«Ci sono scontri nel capoluogo, Bor, e in molti villaggi», conferma Clement Wani, della Eye Radio, una delle poche emittenti indipendenti. Non siamo ancora agli scontri etnici, per fortuna: «Sono solo i militari fedeli a uno o all’altro che si fronteggiano». Mayardit, pressato dall’Onu, si è detto «disposto a dialogare», ma intanto dà la caccia a Macher. Sa che non sarà facile. Macher è sfuggito a decine di agguati. Come quando, con la sua seconda moglie, la britannica Emma McCune, uscì indenne da una grandinata di proiettili di kalashnikov che colpirono la sua auto. Era il 1993. Vent’anni sembrano passati invano.