Alberto Giuliani, Vanity Fair 18/12/2013, 18 dicembre 2013
L’ULTIMA NOTTE DI BERNARD E GEORGETTE, CHE DOPO SETTANT’ANNI INSIEME NON SOPPORTAVANO L’IDEA DI VIVERE UNO SENZA L’ALTRA
MONSIEUR DUBOIS LO SAPEVA. Per questo quella notte non riuscì a dormire. Si alzava spesso dal letto per andare a vedere se, per caso, una luce nella casa dei vicini fosse accesa.
Li aveva visti salire su un taxi nel pomeriggio, dalla finestra del suo studio. A braccetto, come sempre. Con la valigia in mano e gli abiti della festa. Chissà dove stavano andando, si era domandato. Bernard e Georgette, quei due vecchietti che non andavano mai da nessuna parte.
Tutte le mattine alle prime ore del giorno, monsieur Dubois incontrava l’amico Bernard sul marciapiede di casa. Lui, ancora con la faccia del sonno, trascinava il vecchio cane a fare pipì, mentre Bernard tornava già dalla boulangerie dell’angolo, con la baguette ancora calda sotto il braccio.
Tutti i giorni, da più di vent’anni, comprava il pane prima che la moglie si svegliasse. Era il suo modo di dirle «ti amo» da quando una mattina, fatta la pace dopo un litigio, si rinnovarono la promessa di stare uniti per tutta la vita. In quel momento Georgette aggiunse, scherzando: «Promettimi anche che non mancherà più il pane a colazione!».
BERNARD E GEORGETTE CAZES vivevano un amore illuminato, l’uno per l’altra, da più di sessant’anni. Si erano incontrati un pomeriggio di primavera del 1945, tra le macerie della guerra, entrambi figli della precarietà e del conflitto. Loro, nel pieno della vita. Appena diciottenni, incrociarono i loro sguardi, e qualche parola, nei corridoi dell’Hotel Lutetia. Qui, alla fine della guerra, venivano accolti i reduci dei campi di sterminio nazisti. Lunghe liste di nomi e fotografie tappezzavano le pareti dei corridoi e dell’ingresso.
Tra migliaia di occhi, che smarriti e febbrili
cercavano i propri cari gridandone il nome, Georgette incontrò quelli del padre,
Georges Beros. Vestito ancora con il pigiama a righe, dopo cinque anni di prigionia in Germania. Furono lacrime e gioia. Che Bernard osservò da lontano, fino a perdere quella ragazza nella moltitudine di gente e di emozioni.
Ma quell’incontro, durato poco più di un istante, gli era rimasto nel cuore. Georgette, minuta, solare, con lo sguardo tenero e sicuro di sé. Il riso che si perdeva sulla sua bocca. I riccioli neri che le cadevano sulla fronte.
Quando il destino li fece nuovamente
incontrare, alcuni mesi dopo, tra le aule dell’università di Bordeaux, Bernard non esitò a invitarla a ballare. Lei disse sì, e sulla voce di Édith Piaf, che pareva cantare solo per loro, si scambiarono parole d’amore, fino a giurarsi l’eternità. Per la prima volta, dopo gli anni miserabili della guerra, si sentirono in un posto sicuro, il loro abbraccio.
TERMINATI GLI STUDI, Bernard iniziò la sua brillante carriera di economista e filosofo, e Georgette incominciò a insegnare lettere e latino. Si sposarono, e pochi anni dopo nacquero i figli Vincent e Jérôme. Si trasferirono a Issy, alle porte di Parigi, in una stradina di graziose casette a due piani, dai cortili curati e l’aria gentile. Scrissero libri, parteciparono attivamente alla vita culturale del Paese. Insieme osservarono con gioia, nel ’68, i giorni del Maggio Francese. Affrontarono uniti più che mai lo sconforto e il dolore per la morte del loro primo figlio Vincent in un incidente stradale, a soli 21 anni. Si dedicarono agli altri, al volontariato, alla difesa della libertà e della giustizia sociale. Sempre tutto insieme, mano nella mano. Il loro rapporto era un filtro attraverso il quale far passare il mondo reale.
MA «BISOGNA ACCETTARE di essere finiti, di essere qui e non altrove, di fare questa e non un’altra cosa. Di avere solo questa vita», dice l’amico Dubois. Con Bernard e Georgette ne avevano parlato tante volte, però sembrava spiazzarli l’idea che a un certo punto la vita li avrebbe separati nella morte. Loro, che ogni giorno che passava si innamoravano più di prima. Che anzi, più invecchiavano e meno l’amore si faceva scontato, tornando a essere il senso di tutta la vita.
Quando, nel settembre scorso, l’ospedale diagnosticò a Georgette una grave
malattia degenerativa che l’avrebbe
portata alla cecità, i due si parlarono pochissimo. Ciascuno ascoltava il respiro dell’altro, nella sera ancora calda di fine estate. Cercavano di abituarsi all’idea dell’infermità e della fine. All’idea della vecchiaia. Ma troppo forte era il loro amore; nessuno dei due avrebbe voluto sopravvivere all’altro. Allora forse si guardarono solamente, con la stessa passione che settanta anni prima li aveva fatti incontrare. Forse si baciarono, sapendo entrambi quale fosse la scelta più dignitosa, che ormai da tempo si erano giurati.
BERNARD PRENOTÒ SU INTERNET una camera all’Hotel Lutetia. La più bella, la più elegante. Quella che si affaccia sul cielo di Parigi. Georgette riempì una piccola valigia di cuoio con due abiti belli, la trousse dei trucchi e il suo profumo. Chiamarono un taxi, e sul calar del sole attraversarono la loro amata città, che già si accendeva delle luci di Natale.
Il Lutetia. Ci erano tornati qualche volta, per un caffè o qualche evento mondano. Ma da quel lontano 1945 non erano più saliti tra i corridoi delle camere. Li attraversarono curiosi, tra i ricordi dei giorni passati. Ordinarono la cena, e la colazione per la mattina seguente, alle 9.30.
Si chiusero alle spalle la porta della suite, e smarrirono lo sguardo sui tetti della città. La Tour Eiffel, la ruota panoramica, la cupola d’oro del Musée de l’Armée, il Grand Palais. Abbracciati, Bernard
e Georgette scivolarono dolcemente nella nostalgia, davanti allo splendore del mondo, vissuto insieme, nell’amore. Si fecero belli per la cena più importante della loro vita, che un cameriere in doppio petto spinse su un carrello d’argento fino ai piedi del letto.
Poi si servirono un caffè, e passarono tutta la notte distesi tra cuscini di seta, carezze e chiacchiere. Come facevano da ragazzi, quando il tempo sembrava non passare mai. Come ora, in fondo; perché quando si è deciso, forse è meglio che accada in fretta.
E ai primi bagliori di un’alba livida, quando la Tour Eiffel spegne il suo abito di luci, Georgette prese dalla valigia le pillole che aveva preparato con cura.
Ne passò alcune al suo amato Bernard, e come malati le ingoiarono in fretta. Nel nome dell’amore sovrano e della «dolce morte». Per sicurezza, si strinsero un sacchetto di plastica in testa. Poi, si stesero sul letto e si diedero la mano, per l’eternità. Forse, si dissero ancora una volta ti amo, riscattando tutto ciò che è stato detto e che è stato taciuto.
SONO STATI TROVATI COSÌ, VICINI, mano nella mano, pieni della luce di un nuovo giorno, dal giovane cameriere che portava la colazione. Sul loro comodino, due lettere; di commiato per il figlio Jérôme, di denuncia per il Governo francese, che ancora non permette ai suoi cittadini la libertà «di lasciare serenamente la vita».
Dall’altra parte della città, in piedi davanti alla finestra, monsieur Dubois era assorto a guardare la stessa Tour Eiffel che si spegneva. La moglie gli si fece vicino nella penombra, con una carezza, sottovoce. «Che cosa fai già in piedi, a quest’ora?». «Vado a comprare il pane», le rispose,
e le diede un bacio.