Tommaso Labranca, Libero 18/12/2013, 18 dicembre 2013
TUTTE LE «VERGINI CON BAMBINO» DEL MONDO
La Madonna di Foligno che in questi giorni è esposta gratuitamente presso la Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano grazie al contributo di Eni sta diventando una vera icona pittorica. La stiamo ammirando, analizzando, scandagliando in ogni dettaglio, al punto che potremmo rischiare di non concedere la dovuta attenzione al fulcro dell’opera, la Vergine col Bambino, e alla particolarità della sua rappresentazione.
Non deve essere stato facile per Raffaello dire qualcosa di nuovo nel momento in cui si dedicò a questo incarico ricevuto da Sigismondo de’ Conti. Nel 1511 erano ormai remoti i tempi in cui le figure sacre, crocifissioni e Vergini in particolare, venivano rappresentate secondo codici rigidi e in posture ieratiche. In quegli stessi giorni in cui Raffaello dipingeva la Madonna di Foligno, Leonardo stava dipingendo la Vergine col Bambino e sant’Anna, ennesima innovazione del tema dopo la notissima Vergine delle rocce di trent’anni prima. Michelangelo, verso il 1505, aveva risposto con l’inusuale e sotto diversi punti di vista misterioso Tondo Doni.
È un momento storico particolare, il Medioevo sta finendo e tutto cambia ancora sotto la spinta dell’umanesimo e in previsione dell’imminente Rinascimento. Raffaello, che è il più giovane tra i grandi artisti che segnano questo periodo, ne rappresenta un po’ la sintesi, in quanto ha saputo apprendere e sintetizzare rapidamente le varie lezioni: il colorismo veneto, il naturalismo vinciano, la plasticità michelangiolesca. E vi ha aggiunto la sua originalità, che traspare anche da questa Madonna.
Non siamo ancora arrivati agli sconvolgimenti avanguardistici del Novecento, alle Madonne con Bambino espressioniste che Otto Dix nel 1914 riduce ai minimi termini di chiazze acquerellate e tratti di inchiostro o alle quali assegna le fattezze dei miserabili brechtiani. E neppure all’estrema quotidianità della Madonna che sculaccia il Bambino, facendogli cadere l’aureola, come nel quadro di Max Ernst del 1926.
La Chiesa è il grande mecenate, ma pone agli artisti precise regole da seguire perché sa che quelle opere d’arte sono prima di tutto ciò che oggi chiameremmo mass media, veicoli di comunicazione tra dottrina e popolo e basta un’informazione imprecisa o troppo fantasiosa da parte dell’artista per diffondere eresie. Per questo Raffaello non rinuncia a vestire le sue Vergini con i due colori codificati del rosso (che annuncia la Passione di Cristo) e il blu (che rappresenta la Chiesa).Bicromia che resiste ancora nella rappresentazione giocoso avanguardista di Max Ernst, proprio perché è un segnale talmente diffusa da permettere a chi osserva di capire subito chi è la protagonista del quadro anche quando la si fa scendere da nuvole e troni e la si inserisce in ambiti della quotidianità moderna.
Quello che colpisce nella Madonna di Foligno è l’assenza di simboli. Non solo mancano le aureole che invece troviamo ancora, leggerissime, sulle figure della Madonna del Cardellino da lui dipinta cinque anni prima. A essere assenti sono i simboli. Quelli della regalità, come il globo o la corona, o quelli della futura Passione che attende il Bambino e che in altri dipinti erano rappresentati da accenni agli strumenti del martirio o da animali. Come il cardellino che il piccolo san Giovanni offre alla carezza del piccolo Gesù. O l’agnello, simbolo sacrificale, che il Bambino vuole abbracciare e che Maria vorrebbe allontanare, impedita nelle sue intenzioni da sant’Anna che sa quanto quel destino sia ineluttabile, inserito nell’opera che Leonardo stava dipingendo in quello stesso periodo.
Il Bambino nella pala di Foligno è più che mai simile a un qualunque infante e il movimento in cui Raffaello lo ritrae fa quasi pensare che voglia divincolarsi dalla madre per andare a giocare con i cherubini che spuntano dalle nuvole.
Ciò che resta immutata è l’espressione malinconica di Maria, simbolo della coscienza che la donna ha del destino del figlio e che non manca mai in nessuna Maternità, benché spesso disciolta in una grande dolcezza. Al punto che nemmeno Michelangelo seppe rinunciarvi quando scolpì la sua prima Pietà,soggetto diametralmente opposto a quello della Maternità, rappresentando come una ragazzina una donna affranta che avrebbe dovuto avere all’incirca 47 anni. Ben diversa dalla vecchia urlante scolpita poco prima da Niccolò dell’Arca nel suo Compianto sul Cristo morto.
Tristezza, soavità e accettazione del proprio compito sono indicazioni codificate che Raffaello riesce a unire sapientemente in questo volto. Viene in mente una ninna nanna che Tarquinio Merula comporrà cent’anni dopo questo dipinto, Hor ch’è tempo di dormire. Sono solo tre suggestive note ripetute su cui si dispiega il canto di una donna che invita il figlio neonato a dormire tranquillo perché troppe saranno le pene che conoscerà da adulto. E solo alla fine del canto si scopre che a cantare quella nenia dolce e tremenda al tempo stesso è la Vergine.